Gentile direttore, leggo oggi (18 marzo, ndr) l’articolo di Ferdinando Camon, che commenta le dichiarazioni rilasciate dai soldati russi, fatti prigionieri dagli ucraini. Così come leggo e sento, in questi giorni, su tutti i media italiani, notizie e commenti su tali “conferenze stampa”. Uso le virgolette perché mi sembra allucinante chiamarle così. La mia reazione è sentirmi scandalizzato. Cosa penseremmo se fossero i russi a far parlare alcuni prigionieri ucraini? La prima protezione di un prigioniero, se si intende assicurargliela, è non esporlo pubblicamente, al servizio della propaganda (per quanto possa essere veritiera e rispettabile). Per definizione un prigioniero non è “libero”, e non può esprimersi liberamente. Sotto che livello di pressione parla? Come si può ritenere che dica veramente ciò che pensa? Tante volte, quando voglio leggere un commento serio e autorevole, lo cerco su “Avvenire”. E continuerò a fare così. Per questo motivo vorrei che una notizia di questo genere fosse commentata in modo serio. Rispettoso, da un punto di vista umano e della verità, della condizione indecifrabile del prigioniero. Con la massima attenzione a continuare a fare giornalismo e a non scivolare, inconsapevolmente, nella propaganda di guerra. Con stima e rispetto
Giuseppe Bertolini psicologo
È verissimo, gentile dottor Bertolini, ciò che lei scrive con umanità e competenza. Eppure il fine e coinvolgente commento di Ferdinando Camon che lei richiama non ha al centro le parole (ovviamente poco libere) dei prigionieri, ma la loro condizione di giovani soldati mandati in guerra, e in guerra d’aggressione, a far vittime e a esserlo. Ed è un accorato, letterario, appello alla renitenza alla battaglia indirizzato a chi prigioniero non è. Opere e scritti di Camon sono tradotti da decenni in russo, ma questo suo articolo non lo sarà di certo. E non perché è nutrito di propaganda, ma perché è umanamente toccante e vero e, dunque, veramente alternativo alla logica dell’invasione e del massacro.