Lo stabilimento della Lamborghini a Sant'Agata Bolognese dove si lavorerà quattro giorni alla settimana - Ansa
Si torna a parlare di orario di lavoro e questa volta partendo da alcuni elementi di novità per il mercato del lavoro italiano. Hanno infatti destato scalpore gli accordi sindacali recentemente siglati in Luxottica e Lamborghini e nei mesi scorsi da Intesa Sanpaolo.
Accordi che, con modalità e costi differenti, hanno ridotto e rimodulato la settimana lavorativa accorciandola. Se quindi nei mesi scorsi si è tanto parlato, a partire dalle sperimentazioni, invero molto limitate, da tempo in atto in alcuni Paesi (in particolare l’Inghilterra) di una settimana lavorativa di soli quattro giorni, ora alcune aziende stanno provando a sperimentare anche in Italia, e per un numero considerevole di lavoratori, significativa riduzione dell’orario di lavoro che colpisce l’immaginario collettivo.
Se inquadriamo questo fenomeno all’interno della lunga storia del lavoro nel sistema capitalistico, non è tuttavia la prima volta che questo accade se è vero che nella seconda metà dell’Ottocento gli operai inglesi lavoravano tra le 12 e le 15 ore al giorno, senza pause settimanali o ferie, e che, all’inizio del secolo, la Francia ha introdotto, seppur con modifiche successive, la settimana lavorativa di 35 ore.
Si tratta quindi di una richiesta che ha sempre accompagnato il lavoro negli ultimi due secoli e colpisce in questo senso una certa retorica oggi diffusa secondo la quale solo discutere di riduzione dell’orario di lavoro debba per forza legarsi all’incremento di una cultura anti-lavoristica. Sono molte le novità introdotte dalla tecnologia che potrebbero impattare, se si decidesse di muoversi in questa direzione, sui modelli organizzativi di gestione dei tempi di lavoro. E il già solo concentrarsi nel dibattito sulla riduzione quantitativa delle ore lavorate e non sul ripensamento complessivo del ruolo che il tempo ha nel lavoro e nella misurazione del suo valore economico di scambio ci mostra quanto ancora siamo ancorati a un modello taylorista di organizzazione del lavoro.
Siamo in questo senso ancora lontani dall’immaginarci un lavoro liberato dai vincoli temporali, che di fatto condizionano (come tutti possiamo sperimentare con l’esperienza del lavoro agile) anche i vincoli spaziali che si stanno pian piano sciogliendo.
L’essere ancora bloccati in questo paradigma ereditato dalla fabbrica novecentesca porta con sé il dubbio che siano solo grandi aziende con forti margini di produttività e redditività a poter intervenire sui tempi e che questi interventi siano sempre e comunque un costo. Al contrario ripensare al tempo di lavoro tout court, riducendo il suo ruolo di governatore ultimo dei processi di lavoro, incrementando i livelli di autonomia e di responsabilità dei lavoratori, aprirebbe prospettive oggi inedite.
Ma c’è un ulteriore tema che emerge con forza da queste recenti vicende e che è diretta conseguenza di questa visione ancorata al passato. Ossia la crescente polarizzazione tra lavori che consentono di sperimentare concreti miglioramenti qualitativi, grazie a risorse che possono essere investite in questo senso e altri che invece tendono a peggiorare. In un mondo del lavoro dove la scarsità di risorse rende necessario per le imprese essere più attrattive per i profili più ricercati il rischio è quello di costruire una sempre maggior distanza tra questi profili e gli altri.
Così cresce la qualità del lavoro e la retribuzione per i pochi profili imperdibili, che vengono assunti immediatamente con tutele e benefit e questi costi si scaricano riducendo la qualità del lavoro di chi invece non è considerato indispensabile. Stupisce pertanto che, per i guru della modernità, il sindacato italiano debba occuparsi (solo) delle poche isole felici, se davvero esistono, e non di chi nel lavoro incontra abusi, pena, sfruttamento. Siamo di fronte a due facce della stessa medaglia che, per quanto non facilmente componibili in un quadro unitario, non consentono narrazioni a una sola direzione.