C’era una scritta, posta sotto a una targa di cristallo sul comodino della nonna di Jorge Mario Bergoglio. La scritta diceva: «Pensa che ti guarda Dio. Pensa che ti sta guardando. Pensa che morirai e tu non sai quando». Una frase rimasta stampata nella memoria di un bambino di quattro anni, che lo ha poi sempre accompagnato nella vita.
Le meditazioni sulla morte, il “memento mori” degli antichi, non godono oggi di molta popolarità. Facciamo di tutto, in genere, per evitare di pensare a quel giorno. Francesco ieri a Santa Marta, partendo dalla morte del re Davide, ha affrontato questa parola di petto, tratteggiandola in pochi concetti. Sinteticamente ha spiegato che la morte è “fatto”, “eredità”, “memoria”.
La morte è un fatto: «Noi possiamo pensare tante cose, anche immaginarci di essere eterni, ma il fatto viene». E viene in mente, guardando la campagna elettorale con le sue grida agitate, così come le cronache della mondanità, o la lotta nei talent show per conquistare un minuto in tv, se mai questa folla vociante e affannata è sfiorata da ciò che ricorda il papa: «Possiamo anche immaginarci eterni, ma il fatto viene».
La morte, poi, è “eredità”. Dovremmo domandarci, dice Francesco: quale eredità lascerei, se Dio oggi mi chiamasse? Quale eredità di bene, di affetti, di gratitudine mi lascerei dietro?
Infine, la morte è “memoria”. La domanda da fare a se stessi per il Papa è: «Quando io morirò, cosa mi sarebbe piaciuto fare oggi in questa decisione che io devo prendere oggi, nel modo di vivere di oggi?». E questa «è una memoria anticipata che illumina il momento di oggi». Si tratta, in sostanza, ha aggiunto Francesco, di «illuminare con il fatto della morte le decisioni che io devo prendere ogni giorno». E questa forse è l’annotazione più concretamente utile, perché riguarda la quotidianità di ciascuno, ogni oscura ora della nostra vita.
Prospettiva inusuale, certo, quella proposta da papa Francesco. Fare della coscienza della morte come un faro, un punto di riferimento. E dalla lanterna di questo faro osservarsi nelle pieghe consuete delle giornate, nelle decisioni, nelle liti, nei propositi, nell’uso del tempo. Perché quel giorno che verrà, guardandoci indietro, forse avremmo voluto agire diversamente. Non avremmo perso tempo a litigare con un vicino, a dir male di un collega, non avremmo passato ore imbambolati sui social; magari saremmo andati a dare una mano a un amico, a trovare un vecchio malato, o semplicemente ad abbracciare i nostri cari.
Forse, quando verrà quel giorno, tutti i nostri giorni ci passeranno davanti velocissimi, come fogli di un calendario sfogliato dal vento. E forse davvero rimpiangeremo quel tempo perso, quelle parole inutili, quegli abbracci non dati. Allora è una rivoluzione di prospettiva guardare alla vita alla luce della coscienza che moriremo; che «il fatto viene». E in realtà non è un esercizio luttuoso, ma liberatorio. Quante cose, se davvero assumessimo quella inusuale prospettiva, si ridimensionerebbero o sparirebbero, quante altre, dimenticate, si rivelerebbero importanti. Le uniche vere, le sole per cui combattere.
Partire dalla memoria e dalla certezza della morte, potrebbe essere vivificante. Siamo così attaccati alle nostre abitudini, manie, antipatie, pregiudizi. Il Papa ci propone un esercizio di fede e di immaginazione: guardare alla nostra vita quotidiana, come la guarderemo l’ultimo giorno. Si potrebbe provarci. Chissà che tanti odi incancreniti, tanti rancori o avidità od ossessioni, guardati con quello sguardo non si fessurino, come cristalli rotti. E se ne veda l’inganno, respirando l’aria di una nuova, mai provata libertà. Come insegnava quella scritta su un comodino di una nonna, decifrata a stento da un bambino di quattro anni: «Pensa che ti guarda Dio. Pensa che ti sta guardando. Pensa che morirai e tu non sai quando».