Un gruppo di rifugiati afghani fermi dopo avere varcato il confine con il Pakistan, in attesa di ottenere almeno un rifugio temporaneo dopo il rientro forzato in patria. Adesso dovranno lasciare il Pakista. Per andare dove? - Ansa
In 400mila hanno preso finora la via del ritorno da quando a metà ottobre il Pakistan ha annunciato che dal primo novembre sarebbe iniziata l’espulsione di un gran numero di afghani. Un provvedimento indicato come “necessario” dal governo di Islamabad che negli ultimi dodici mesi ha ignorato gli appelli di molte parti, tra cui Amnesty International, a rivedere la sua politica verso gli immigrati. D’altra parte, nonostante il Paese abbia sempre aperto le porte alle iniziative umanitarie dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, non è firmatario di convenzioni e trattati specifici.
Chi prende la via dell’emirato taleban sono in maggioranza, il 76 per cento, donne, bambini e anziani e la possibilità che il provvedimento venga esteso anche a chi ha un regolare permesso di soggiorno solleva non poche preoccupazioni e anche appelli, sia alla raccolta di fondi per l’assistenza, sia per una moratoria. Si tratta indubbiamente di una iniziativa controversa e forse sollecitata da opportunità politiche in vista delle elezioni parlamentari pachistane previste l’8 febbraio 2024, che ha riacceso i riflettori sulla sorte degli afghani costretti a lasciare la terra d’origine per fare del Pakistan una meta ma anche un punto di ripartenza verso destinazioni terze. Un’attenzione che, per quanto riguarda i riflessi sul Vecchio Continente, era sembrata finora concentrarsi sull’ultimo biennio e ignorare un più ampio quadro migratorio che ha preceduto, accompagnato e seguito l’uscita di scena delle forze Nato dall’Afghanistan nell’agosto 2021
Che ci siano responsabilità e mancanze nella fine precipitosa della presenza dell’alleanza a guida Usa in Afghanistan, che comunque aveva promosso un ventennio di crescita sociale ed economica dopo la fine del primo emirato islamico durato dal 1996 al 2001, è indiscutibile. Tuttavia, vale la pena ricordare che la diaspora successiva all’abbandono della popolazione nelle mani dei taleban due anni fa, pur se consistente, non ha avuto come meta diretta l’area mediterranea e europea, ma ancora una volta anzitutto Paesi confinanti, con oltre la metà del milione e seicentomila nuovi profughi trasferitasi in Pakistan. Così come le difficoltà della popolazione afghana non possono essere soltanto ricondotte alla sconfitta degli “studenti islamici” e al ripiegamento vent’anni dopo delle truppe Nato nel drammatico ritiro dell’estate 2021, allo stesso modo l’incidenza di afghani negli sbarchi sulle coste dell’Europa meridionale o l’accesso dalla cosiddetta “rotta balcanica” hanno altre ragioni.
Non si sa quanti degli oltre 800mila entrati nella nazione confinante nell’ultimo biennio - in uscita dall’emirato - si siano rifugiati tra i loro compatrioti e quanti abbiano tentato o stiano tentando di raggiungere l’Occidente
Non si spiegherebbe altrimenti perché – fatto salvo il consolidarsi di agguerrite reti di trafficanti negli ultimi anni – l’invasione sovietica e la conquista di Kabul da parte dei taleban nel 1989 non abbiano dato vita a un flusso altrettanto intenso di profughi al di fuori dell’ambito regionale nonostante la fuga di milioni di afghani oltreconfine, in Tajikistan, in Uzbekistan, in modo massiccio in Iran e in maggioranza in Pakistan, seguendo anche la logica di cercare ospitalità in regioni e tra etnie simili per tradizioni e lingue. Dando vita a una diaspora mai interrotta anche se di intensità diversa nel tempo che per fonti Onu ammonta oggi complessivamente a 8,3 milioni di individui ma che resta concentrata alle porte di casa.
Oggi in Pakistan, “ricco” di 230 milioni di abitanti ma povero e arretrato anche tra i Paesi a basso reddito dell’Asia, gli afghani residenti sono per dati governativi 4,4 milioni, ma il loro censimento ha portato il governo guidato da Anwaar-ul-Haq Kakar a stabilire che oltre 1,7 milioni non hanno condizioni o documenti che ne consentano un’ulteriore permanenza. Le motivazioni proposte per la decisione ufficiale sono ampiamente condivise nel Paese.
L’etnia Pashtun, che costituisce nel suo variegato insieme la maggiore popolazione tribale al mondo con oltre 60 milioni di membri, è maggioritaria in Afghanistan e nella provincia nord-occidentale pachistana di Khyber Pukhtunkhwa e questo ha consentito a milioni di profughi in fuga di trovare accoglienza in Pakistan e un certo livello di integrazione. Ospitati per anni in campi, si sono gradualmente e in buona parte inseriti nel territorio, dando vita a una convivenza tra comunità diverse per lingua e cultura, anche se accomunate dalla fede islamica, spesso difficile. Indubbio il loro contributo positivo alla società pachistana, tuttavia nel complesso la loro presenza – con un sostegno discontinuo della solidarietà internazionale - è stata vista o proposta come un fardello economico, problematica in una realtà con poche risorse e spesso chiamata a fronteggiare eventi catastrofici, come l’alluvione di un anno fa di cui ancora si vedono le conseguenze per la popolazione, afghani inclusi.
Non solo. Nel tempo anche interessi illegali e criminali di vario genere hanno infiltrato le comunità afghane accusate di ospitare gang dedite a sequestri, estorsioni, omicidi mirati di rivali ma anche di esponenti religiosi moderati o ostili alla loro visione sunnita integralista con elementi di arcaicità tribale.
Karachi, per molti anni dopo la separazione dall’India nel 1947 controllata politicamente da solo o in alleanze variabili dal Mohajir Qaumi Movement, il partito degli immigrati di origine indiana, è diventata la “principale città pashtun”. Superati ormai i venti milioni di abitanti, la metropoli vive oggi tensioni meno pronunciate, ma rimane terreno di scontro tra le etnie e le bande per il controllo del territorio, delle risorse e degli investimenti in un’area strategica affacciata sulle rotte tra Golfo Persico e Asia meridionale.
Davanti a questa situazione le autorità federali e le forze di sicurezza hanno così iniziato la pressione sulla comunità afghana, nel frattempo cresciuta ulteriormente per le nascite proprie e per l’afflusso di nuovi profughi e, altro fattore negativo, infiltrata da movimenti radicali e jihadisti internazionali e dalle loro affiliazioni locali. Ad esempio, a fronte di 20mila rientri spontanei nel 2014, furono oltre 22mila nel solo gennaio 2015 durante una campagna di espulsione o “persuasione” dopo l'attacco del dicembre precedente rivendicato dai taleban contro una scuola gestita dai militari costato la vita a 141 tra studenti e insegnanti.
La risposta armata, quella più incisiva la campagna militare Zarb-e-Azm tra il 2014 e il 2017, ha portato alla “bonifica” dai jihadisti delle aree tribali al confine con l’Afghanistan al costo di migliaia di vittime tra militanti, popolazione e forze di sicurezza. Un chiaro segnale che la situazione stava cambiando, ma complessivamente le iniziative di persuasione e incentivo al rientro in patria degli afghani hanno avuto scarso successo. Inclusa quella concordata con il governo di Kabul che si sarebbe dovuta completare nel 2015.
La pressione sulla comunità immigrata da allora non si è mai attenuata, anche per i rischi di destabilizzazione evidenziati dalle autorità e questo ha sollecitato un movimento di uscita di afghani dal Pakistan che ha in parte utilizzato rodati canali di emigrazione regolare e in parte le reti del traffico di esseri umani attive dal Sud-Est asiatico all’Asia minore che qui hanno salde basi e connivenze anche nelle sedi consolari. Non si sa quanti degli oltre 800mila afghani entrati in Pakistan nell’ultimo biennio si siano rifugiati tra i loro connazionali e quanti abbiano tentato di raggiungere l’Europa. Lo stesso, si può supporre, potrebbe fare almeno una parte dei nuovi espulsi contrari a rientrare nella madrepatria in mano ai taleban e per loro senza prospettive.