Caro direttore,
sono una madre molto preoccupata per il futuro dei propri figli, sin da quando erano piccoli li ho spronati a studiare affinché potessero avere un avvenire, ognuno secondo le proprie attitudini, ma oggi che il più grande si è laureato con lode mi viene da pensare a un film di Spielberg, “Schindler’s List”, totalmente in bianco e nero tranne che per l’immagine di una bambina con il cappottino rosso che tenta di nascondersi durante un rastrellamento nel ghetto ebraico. Lo spettatore vive per un attimo la speranza che la bimba possa essersi salvata ma poco dopo il cappottino spicca su una catasta di morti. Ho sempre pensato che il regista abbia voluto così sottolineare come la follia del nazismo abbia privato il mondo di belle menti. Oggi che il nazismo non c’è, vediamo giovani di talento appassire solo perché non hanno alle spalle una famiglia che possa aprire loro le porte del futuro. È terribile pensare che il proprio figlio possa essere quel cappottino rosso, soprattutto dopo averlo visto impegnarsi e studiare con serietà, alzandosi alle quattro e mezza del mattino per prendere il treno perché non c’erano i soldi per pagare l’affitto nella città dove frequentava l’università. Quante madri oggi si trovano nelle mie condizioni, quante madri hanno spronato i figli al sacrificio nella speranza di una vita migliore quando l’unico bene era l’intelligenza di cui erano dotati? Venerdì, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi con le sue parole ha reso ancora più forti i miei timori, per questo mi sono decisa a scrivere e a inviarle questa lettera. Io sono “nessuno” e probabilmente le mie parole finiranno cestinate ma, almeno, avrò la consapevolezza di non essere rimasta inerte a guardare.
Anna Diodati
La sua lettera sintetizza, cara signora Diodati, le ragioni per le quali Avvenire da diverse settimane sta dando un’attenzione martellante alla cosiddetta “questione giovanile”. Una questione che è bene definire così perché tutti capiscano subito di che cosa stiamo parlando. Dei giovani appunto, e del loro ruolo (ma purtroppo potremmo anche dire del loro sostanziale non-ruolo) nella nostra società. Un nodo che però, e lei lo fa capire con passione e profondità, è molto di più di una questione “dei giovani”. Perché è la questione stessa del futuro di quel consorzio umano che evochiamo quando parliamo di Italia. Ed è anche la “questione adulta”, cioè la questione del senso della vita e della fatica (potremmo anche dire della speranza o della negazione della speranza) di coloro che oggi sono madri e padri , nonni e maestri, legislatori e governanti, e – in molti modi – “giudici” dei più giovani.
Venerdì ero anch’io tra coloro che hanno ascoltato direttamente e integralmente la relazione del governatore Draghi e gli altri interventi che hanno animato il seminario su “Crescita e giovani” promosso dall’Intergruppo per la sussidiarietà (un luogo bipartisan che, a mio parere, dimostra quanto la politica possa essere “bella” e sobriamente efficace, quando i politici sono all’altezza del mandato ricevuto). Mario Draghi è stato molto schietto nel delineare – con la forza dei numeri, degli esempi tratti dall’esperienza personale e del mondo, del ragionamento sulle riforme necessarie – il rischio di quello che io chiamo lo “sterminio della speranza” in nuove generazioni che appaiono consegnate a una precarietà di vita e di lavoro senza scampo e senza precedenti nelle società del benessere che abbiamo edificato e nella quale li abbiamo fatti crescere. Un dramma incombente e già attuale che lei, cara signora, evoca perfettamente con l’immagine tremenda del «cappottino rosso» di “Schindler’s List”. Ma il governatore non si è limitato a lanciare di nuovo l’allarme, ha anche indicato i principali nodi da sciogliere e i focolai d’infezione da aggredire. Avvenire, ieri, ne ha dato ampio conto, e non ci torno su. Ripeto solo che lo “sterminio della speranza” nei più giovani non è inevitabile, lo sarà solo se non saremo capaci di capovolgere la tendenza all’immobilismo, alla stagnazione, che oggi è dominante. E questo deve accadere, anche qui la penso come Draghi, sia nella trasmissione dei comportamenti (in famiglia, prima di tutto), sia nell’azione politica e sindacale di chi ci governa e ci rappresenta. Per spezzare gli inesorabili ingranaggi della macchina della precarietà ci sono diverse rigidità da smontare: in campo lavorativo persino prima che in quello previdenziale, perché merito ed equità possano convivere, e le esigenze di tutela dei già garantiti non continuino a schiacciare quelle dei non-garantiti.
Suo figlio, gentile signora Anna, è un giovane laureato che ha meritato negli studi e merita occasioni. E lei non è affatto “nessuno”. Da quel che capisco – e sono certo di capire bene – è una madre che, come direbbe Draghi, ha fatto la propria parte nella trasmissione di stimoli e di comportamenti: ne sia fiera, non ha infagottato il suo ragazzo in un “cappottino rosso”. Ma è vero, verissimo, che l’altra metà del lavoro è in larghissima parte da fare. E che questo dovere tocca alla nostra classe dirigente, soprattutto a quella politica. Lo dico in modo forse un po’ brutale, ma bisogna che si capisca che ormai la scelta è tra fare raccomandazioni per pochi e fare leggi difficili ma giuste per tutti. E dubbi non possono essercene. Si facciano le cose difficili e giuste, e ci impegni per spiegarle come si deve agli italiani. Abbiamo occhi e orecchie: siamo preoccupati, siamo capaci di capire e giudicare, siamo capaci di fare la nostra parte.