Nelle canzoni il racconto di realtà estreme esige una scelta etica Si discute sul ruolo e sul significato della musica rap (e trap) importata in Italia, senza grande originalità, dagli Stati Uniti. L’occasione è offerta dal recente Festival di Sanremo dove, come noto, è arrivato secondo Geolier, rapper napo-letano, con una canzone in dialetto (e finora la discussione è stata soprattutto sulla sua purezza linguistica). In questo contesto la madre di Giogiò (Giovan Battista Cutolo), musicista di talento morto in strada nel 2023 per mano di un sedicenne abituato alla violenza, ha ricordato il figlio per citare le due Napoli: quella delle periferie e quella dell’impegno, sottolineando come si sia persa l’occasione di indicare come modello per i coetanei ambedue i giovani musicisti. Si riuscirà a trovare espressioni artistiche e musicali che riescano a parlare ai due mondi, alle città “di sopra” e le città “di sotto”, rivolgendosi ai ragazzi di Secondigliano, San Siro o Tor Bella Monaca senza giustificare il ricorso alla violenza e alla vendetta, la furbizia asociale, l’omertà?
C’è anche un altro motivo per parlare di rap, offerto dalla critica che alcuni hanno fatto recentemente a certi testi violenti contro le donne, in un momento in cui la società, davanti al grande numero dei femminicidi, si interroga sulla cultura che li permette e li giustifica. Molti brani sono, infatti, estremamente misogini e aggressivi e suscitano domande sul vero e proprio incitamento all’odio che veicolano, oltre che a eccessi nell’alcol, negli stupefacenti o nella guida pericolosa. Il rap (acronimo di rhytm and poetry) nasce come strumento di denuncia delle discriminazioni nel mondo afroamericano degli anni 50-60, a cui si associa però negli anni successivi l’ostentazione dei beni di lusso (macchine, monili d’oro) ottenuti attraverso il successo. Sempre nell’ambito della cultura hip-hop, la trap, più melodica, è nata specificatamente dal collegamento con l’uso di droghe. Già da questi aspetti si coglie l’ambiguità di questa forma di espressione, che da un lato vorrebbe denunciare l’ingiustizia sociale ma dall’altro la giustifica e la esalta, indirizzando violenza e ribellione in modo indistinto non tanto verso il “potere” ma verso tutti, compresi i coetanei.
Ci sono però anche aspetti diversi: la canzone arrivata seconda a Sanremo parla di una separazione di coppia che può avvenire senza ritorsioni violente o esibizione di possesso sulla donna e in Money, un’altra canzone di Geolier (a cui l’odio ”scoccia”), il messaggio è che “i soldi non bastano” se non c’è la soddisfazione personale di aver creato qualcosa. Siamo quindi di fronte a un rap “cattivo” e a uno “buono”? Tutti i rapper sono sicuri di parlare di “vita vera” a chi li ascolta: come far capire la differenza? A usare questa narrativa della strada sono anche i ragazzi nati da famiglia immigrate: le “seconde generazioni”, in vari casi maghrebini o egiziani. Tra loro alcuni sono emersi con una valida produzione artistica e un profilo originale, altri al limite della legalità, altri ancora hanno conosciuto processi e carcere. I loro nomi sono molto conosciuti e rappresentano un modello per bambini e adolescenti di periferia che hanno avuto famiglie difficili, spesso trascurati dai servizi sociali e dalla scuola, vissuti in quartieri disagiati. Il riconoscimento della cittadinanza che i nostri governi hanno finora negato loro è l’immagine più chiara di come abbiamo lasciato questi ragazzi “stranieri” nel loro e nostro Paese. La loro musica riuscirà a raccontare il nuovo mix multiculturale della società italiana o contribuirà invece a etnicizzare ancor di più le loro espressioni, chiudendoli in ghetti sociali e culturali dove prevalgono modalità mafiose (quelle sì, purtroppo, “universali”)? La sfida è parlare alle nuove generazioni senza moralismi ma, allo stesso tempo, farli confrontare su una domanda di senso rispetto a scelte e comportamenti.
Invece, per difendere la musica violenta (così come i video) si ricorre a un argomento: queste canzoni non fanno altro che rispecchiare il mondo, dunque hanno una ruolo di verità. “Stiamo solo descrivendo la realtà” – si sente dire –, contro l’ipocrisia degli adulti. Non è così: ciò che si sceglie di rappresentare non è tutta la vita, ma rabbia, insofferenza, solitudine, con toni drammatici e teatrali che possono essere paragonati ai feuilletons o alla sceneggiata melodrammatica, dove il camorrista o il femminicida per “amore” e per onore sono presentati come figure positive, vittime di un mondo che “ non gli ha imparato” altro. Certamente l’espressione artistica deve affrontare temi anche scabrosi, duri, dolorosi, e non edulcorare la realtà. Ma il male va descritto con sofferenza e profondità, non con ammirazione. L’ammiccamento alle sostanze tossiche (lo “zucchero”) e alle devianze o riesce a essere arte e poesia o diventa automaticamente normalizzazione. Il confine è qui, tra una disperazione usata per creare personaggi di piccoli maledetti di periferia (e vendere prodotti) oppure vissuta con dolorosa sincerità. Si spera che il gusto dell’immaginario giovanile e di chi sfrutta questo mercato commercialmente possa trovare un linguaggio che evochi, più che rabbia e mancanza di senso, qualcosa per cui vivere e sperare. Non si tratta quindi di condannare o criminalizzare ragazzi che a volte, peraltro, sono già inseriti in un circuito di illegalità o, come stabiliscono recenti decreti, rendere più facile il carcere per i minori. Senza comode indulgenze occorre lavorare sul senso morale delle scelte, in un contesto dove i confini tra ciò che fa “male” e ciò che fa “bene” sono sempre più labili.