Gentile direttore,
militavo nel movimento federalista europeo all’inizio degli anni 50 quando l’albagia dei transalpini fece naufragare Ced (Comunità europea di difesa) quindi l’articolo di Francesco Palmas è per me musica celeste. Ma siamo in una pseudo Unione Europea, che sembra più una rissosa assemblea di condomini che una unione di popoli. Questo articolo va diffuso e ne va inviata copia ai capi di governo. Senza un unico esercito non abbiamo garanzie di pace. Si vis pacem para bellum.
Ferdinando Pedriali
Diciamo subito, gentile signor Pedriali, a vantaggio di chi non ricordasse con la sua chiarezza e amarezza tutti i passaggi chiave del faticoso cammino dell’Europa verso l’Unione, che coloro che lei definisce i «transalpini» altezzosi (l’elegante e desueto “albagia” ne è sinonimo…) sono i nostri cugini francesi. Che contribuirono certamente in modo decisivo (nel 1954) al fallimento della Comunità europea di difesa attraverso un voto negativo della loro Assemblea nazionale, ma che prima ancora la Ced l’avevano immaginata e concepita per merito di Jean Monnet (presidente “fondatore” della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e di René Pleven (primo ministro di Parigi). Proprio Pleven diede nome al piano per la costituzione della Ced che prevedeva un esercito comune, un ministro della Difesa europeo e apriva la concreta prospettiva della costituzione di una Comunità polita europea (Cpe) di cui venne persino redatto lo Statuto. Passi entusiasmanti, intrapresi a poco più di un lustro dalla fine dell’immane massacro della seconda guerra mondiale e sotto il cielo di piombo di una guerra fredda ancora sotto il segno di Stalin. Passi troppo accelerati? Bisogna ammettere che l’Italia di Alcide De Gasperi (e di Altiero Spinelli, che spinse il nostro presidente del Consiglio ad appoggiare un piano che non lo aveva convinto del tutto) la Germania di Konrad Adenauer e gli Stati Uniti di Dwight David Eisenhower giocarono a loro volta ruoli complessivamente deludenti. Ma è verissimo che il colpo di grazia venne da uno spregiudicato gioco parlamentare parigino, che manifestò le profonde divergenze nella stessa classe dirigente d’Oltralpe ammalata di “grandeur” nazionale su un progetto che pure portava, sin dal suo primissimo inizio, proprio il marchio della Francia.
L’idea alla base del progetto di un esercito comune, a mio parere, non è solo quella famosa e da lei richiamata, del si vis pacem para bellum. Nella spinta originaria infatti non c’era tanto la preoccupazione di organizzare la guerra, ma prima di tutto di esorcizzarla unendo gli strumenti bellici di Stati che per secoli non avevano fatto altro che combattersi. E questo fu il vero grande impaccio. Dovemmo tuttavia ricordarci sempre che in un bel pezzo d’Europa – quello dei 28 Stati che noi critichiamo sempre più spesso per le imperfezioni dell’Unione a cui danno vita – la pace è comunque accaduta e poco a poco è dilagata, anche se non smettiamo di combattere “battaglie” egemoniche o di auto affermazione quasi solo a contenuto economico. Credo che il progetto della difesa comune europea attraverso un solo sistema di forze armate vada perseguito e attualizzato con decisione e visione, in un tempo che sperimenta e conosce sempre più e meglio anche altre forme di civile difesa dei popoli e che impone di spendere sempre meno per le armi (oggi lo sciupìo è davvero mortale). Spero poi che almeno le mie figlie riescano a vedere il giorno in cui il mondo intero avrà un solo esercito, sotto la bandiera azzurra delle Nazioni Unite, presidio contro le sopraffazioni e contro l’idea stessa della guerra. Se ci guardiamo intorno, sembra un’idea folle. Persino più dell’ormai lontano e fallito “piano Pleven”. Ma noi non siamo cinici, gentile signor Pedriali, e sappiamo che i sogni aiutano a camminare nella direzione giusta, che è quella della pace nella giustizia e nella libertà. Perciò non vanno messi nel cassetto, ma raddoppiati.