C’è un rischio in più nello stordente svilupparsi di una "grande crisi" che ritrova continuamente virulenza. Anche se sappiamo tutti bene che i numeri (persino i più virtuali) non sono mere astrazioni, corriamo il pericolo di sederci – per quanto scomodamente – come invitati allo "spettacolo" dei saliscendi di titoli e indicatori e «spread». Ma quei fuochi che consumano ricchezza sono solo apparentemente accesi sempre un po’ più in là. Ed è inutile aspettarsi, come in ogni spettacolo che si rispetti, il colpo risolutore capace di porre fine all’incertezza o al dramma incombente. Stavolta, come già altre volte nella vicenda nazionale, non possiamo sperare in colpi di teatro, abbiamo invece da rimboccarci letteralmente le maniche per fare – lasciatecelo ripetere – ognuno la propria parte. E chi ha responsabilità istituzionale e politica ha il compito di motivarci a questo e di rendercelo possibile.Ieri, il cardinale Angelo Bagnasco – con cuore e sguardo di arcivescovo di Genova, ma senza smettere attenzione e preoccupazioni da presidente della Cei – ha ricordato di nuovo, «con rispetto», con «forte convinzione» e con grave consapevolezza delle ferite che si vanno aprendo nel corpo vivo del Paese, che una delle primissime cose da fare insieme è difendere e valorizzare le «eccellenze produttive» che rappresentano uno dei grandi patrimoni italiani. È per questa via, ha detto appellandosi a chi ha potere e dovere di agire e scegliere, che si difende un essenziale elemento di equilibrio del bilancio del Paese: il lavoro degli italiani e la coesione sociale che ne discende.È così: i numeri della crisi non sono astrazioni, sono volti precisi, storie concrete, vicende familiari e comunitarie. Bisogna ricordarselo, perché l’economia – proprio come il sabato – è per l’uomo e per la donna, non il contrario. E dalle recessioni annunciate non si uscirà mai senza rispettare– e usare al meglio – le forze, le capacità, le idee e la dignità di chi in Italia lavora e fa impresa, ha famiglia e crea comunità.