mercoledì 6 aprile 2011
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Il secondo anniversario è più duro del primo. È quello della presa d’atto, dell’amara valutazione. Di cosa? Del fatto che l’Aquila non sarà riabitabile per lunghissimo tempo. Che le abitudini di vita, i punti di riferimento consolidati da sempre, nei luoghi rivestiti di ricordi personali, resteranno impraticabili ancora per molti anni. Il 6 aprile 2010 è stato l’anniversario della testa rialzata, dei denti stretti contro la tragedia giunta al primo giro di boa, del gonfiare il petto per dimostrare a tutti che la città, prostrata come altre volte nel corso dei secoli, poteva risollevarsi. E poi il G8 alle spalle, l’attenzione mediatica mondiale, il procedere dei cantieri-satelliti, con l’assorbente impegno di ritrasferirvi, prima dell’arrivo del freddo, tutti i migrati sulla costa od ovunque avessero trovato riparo, alimentavano il miraggio di un ritorno all’Aquila non troppo remoto, quasi potesse cancellarsi come un brutto sogno lo sconquasso di 12 mesi prima.Non è stato così. Non poteva essere così. La sfida, coraggiosa e combattuta, ha dovuto prendere atto di un avversario fortissimo: il tempo. Tempo necessario per ricostruire. Per consolidare. Per rianimare. E, solo alla fine, per rientrare in città. Quest’attesa produrrà meste conseguenze sulle varie età degli abitanti. I più espropriati saranno i vecchi, molti dei quali non rientreranno più dove sono vissuti tutta la vita, intendendo per rientrare il reinserirsi in un tessuto pulsante come prima; potranno, forse, biblicamente contemplare a distanza la città promessa, nell’ultimo scorcio della loro esistenza, finendola però negli alloggi di fortuna, sparsi tutt’intorno.Espropriati, pur se inconsapevolmente, saranno anche i piccoli, che cresceranno nelle new town; non conoscendo la città in cui, una o due generazioni prima di loro, giocavano e andavano a scuola padri e nonni; con triste interruzione del flusso di continuità di racconti e ricordi, da parte dei grandi, sollecitata magari dal tenerli per mano, mentre passavano negli stessi luoghi.Espropriati saranno anche gli adulti non vecchi, costretti a nascondere il dolore per far forza a chi sta loro intorno, impedendo alla nostalgia, coi suoi continui attacchi, di insediarsi al posto della determinazione ad andare avanti.Il secondo anniversario è quello che, in termini psicologici, si chiama di realizzazione della perdita, in base al meccanismo che occorre alla perdita di una persona cara. Tutto, intorno, può sembrare uguale. Ma non è così. Passata la prima fase, la perdita comincia a penetrare e pervadere ogni cosa. Iniziano a prendere forma le incommensurabili coordinate, i lancinanti lembi di un’assenza devastante, durissima. E di questa perdita di un luogo, anche per coloro che non abbiano perso dei cari, di questo lutto per un’espropriazione spaziotemporale (nel senso etimologico del termine: pianto per una dimensione strappata, che si avvertiva come propria, come radicativa di un’identità) la Bibbia dà una pagina d’infinita bellezza, fonte d’ispirazione da 2.500 anni per gli artisti, nel super flumina Babylonis. Gli aquilani, il 6 aprile 2011, sono come gli ebrei sui fiumi di Babilonia, nella cattività dell’esodo, al ricordo di Sion. Entrambi hanno scelto il silenzio, per ricordare; gli uni con le cetre appese agli alberi, gli altri col lasciar risuonare di notte, come è avvenuto stanotte, 6 aprile, alle 03:32, 309 rintocchi, uno per ogni vittima. In assenza di ogni suono. Con occhi lucidi davanti alle candele tremolanti.Un giorno torneranno nella città promessa, che piano – molto piano – sta risorgendo. L’Aquila tornerà a volare, come ha detto anche Sua Santità. Ma per anni invano gli aquilani ne cercheranno il volo in questo magnifico, terso cielo montanaro di aprile, il mese più crudele per loro.
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