Caro Direttore, mi riferisco all’articolo pubblicato da «Avvenire» venerdì 6 marzo scorso dal titolo «Sul Don la neve è sporca, ma non di odio», in cui si accenna al testo dello storico tedesco Thomas Schlemmer e si afferma, giustamente, che quanto da lui sostenuto non risponde al vero. Ritengo doveroso inserirmi nella polemica, per smentire la tesi di Schlemmer con dati di fatto riscontrati personalmente sul posto. Io sono un generale in quiescenza dai primi anni ’90, già Addetto Militare presso l’ambasciata d’Italia a Mosca dal 1973 al 1976, primo e unico – fino ad allora – rappresentante ufficiale del nostro Esercito che si riuscito, all’epoca della guerra fredda, a recarsi proprio nell’area presidiata dal Corpo d’Armata Alpino, per rendere omaggio di persona ai nostri caduti nella battaglia del Natale 1942 e in specie al tenente Guglielmo Zavattaro Ardizzi a cui era intitolata la mia prima caserma. Attraversai quindi sul Don l’area di schieramento degli Alpini, a partire da Rossosh, sede del Comando di Corpo d’Armata, dove feci sosta. Parlai con la gente, acquistai dei fiori, entrai in una casa già abitata da soldati italiani, spingendomi poi sul tergo dello schieramento ed ebbi modo di riscontrare in loco la veridicità di fatti che smentiscono del tutto le affermazioni dello storico sopra citato. Ricordo ancora con commozione lo stupore e le parole delle donne al mercato di Rossosh: «Italiani, bravi ragazzi, brave persone. Cantavano 'Mamma', 'Quel mazzolin di fiori'. Portavano un cappello largo con una penna, si chiamavano Alpini, Alpinisti. Loro ci davano da mangiare e noi li ospitavamo nelle nostre case. Quando arrivavano i tedeschi noi scappavamo e quando se ne andavano noi rientravamo per stare con gli italiani». La simpatia di quelle donne era del tutto spontanea, tanto che non accettavano che io pagassi i fiori; fiori che poi deposi metà ai piedi del monumento di Rossosh dedicato ai caduti russi e metà su una tomba immaginaria a Selenj Yar, come avevo promesso alla madre del tenente Zavattaro, perché, come si sapeva, i nostri cimiteri di guerra erano stati cancellati. Ovunque sostavo durante il viaggio con il mio segretario e chiedevo informazioni, l’atteggiamento nei nostri riguardi era di gradita sorpresa, evidentemente per il buon ricordo lasciato dai nostri soldati con il loro comportamento umano sempre, anche nella drammatica ritirata, pure quando prigionieri di guerra russi, in mano nostra, spararono contro i nostri reparti per acquistare credito dalle loro autorità politiche. Questo rapporto tutt’altro che ostile, bensì amichevole, tra la gente locale e gli italiani in uniforme, di cui avevo già avuto sentore a Mosca, era implicitamente confermato dal fatto che quasi solo a noi, tra gli stranieri, i russi sorridevano in caso di incontri occasionali, evidentemente perché ci sentivano amici, non ostili e sgraditi. Infatti noi italiani eravamo tra i pochi che riuscivano a capire la loro mentalità e i condizionamenti del loro sistema politico, come dimostra il successo dei nostri operatori economici. Viceversa, proprio il disprezzo e la crudeltà delle truppe tedesche verso popolazioni dell’Urss destinate a diventare, secondo gli ordini di Hitler, i nuovi schiavi del suo impero fu un fattore psicologicamente importante della sconfitta germanica. Infatti diede modo a Stalin di far appello alla Russia quale loro grande madre patria comune, per coalizzare popoli diversi nella volontà di lottare contro il malvagio invasore, mentre all’inizio del conflitto (quando l’Armata Rossa, schierata alla frontiera, si era dissolta) genti dei Paesi di confine avevano sperato che i soldati tedeschi fossero liberatori. Pertanto, caro direttore, prego di trovare il modo di far conoscere queste mie realistiche esperienze e considerazioni, anche se superano i limiti d’ingombro stabiliti dalla direzione del suo bel giornale, al quale sono abbonato da anni.
Vittorio Bernard generale C.A.
Oggi lei smentisce con l’autorità che viene dalla vita le tesi di un libro che noi abbiamo a suo tempo (era il 20 gennaio) recensito ma per criticarlo. Qualche incomprensione ci è venuta per quella scelta che tuttavia era inequivocabile nelle intenzioni e nei fatti. Ora spero che l’equivoco sia stato superato. Il suo gesto e la sua amicizia ce lo confermano. Grazie. La saluto cordialmente, e con lei tutti gli Alpini d’Italia. (db)