È di questi giorni la pubblicazione del Rapporto annuale del Censis che, tra l’altro, descrive gli italiani come «malinconici». E se fosse una buona notizia? Non per i motivi addotti, tra guerra, crisi e strascichi della pandemia, ma per gli squarci di luce che s’aprono e di cui il sentimento è “segno’”.
Quando sentiamo parlare di malinconia la prima reazione è di disagio perché immediatamente ci viene da associarla alla depressione, soprattutto a quella patologica. E il disagio può trasformarsi in negazione, fino a far diventare questo sentimento stesso un tabù: perciò si ha vergogna a parlarne e, soprattutto, non si deve sperimentare! Ma ogni tentativo di “negare” i sentimenti, soprattutto quelli che ci inquietano di più, è destinato a fallire e a portare, prima o poi, il conto talvolta anche con l’insorgenza di sintomi. Negare la malinconia e la sua presenza nella vita di ognuno di noi, non solo non è possibile, ma comporta la perdita di alcune opportunità di crescita e, soprattutto, si accompagna talvolta con un’incapacità di sperimentare vera gioia. Sembra un paradosso, ma chiunque cerchi di non dimenticare le “password” del suo cuore, come di recente ha detto papa Francesco, sa che in fondo è così. Perché, allora, non esplorare un po’ di più questa espressione dell’animo umano? Su questi sentieri anni fa mi ha condotto la lettura di un libretto “Sulla malinconia” di Angelo Majo, sacerdote milanese. Ricco di riflessioni, esempi di vita vissuta e citazioni sul tema, l’Autore attinge alla letteratura, alla poesia, alla filosofia, ma soprattutto a un testo del grande teologo italo-tedesco Romano Guardini: “Ritratto della malinconia”. Per la prima volta intravedevo il versante positivo della malinconia, con la possibilità di una sua rilettura in chiave teologica, pedagogica e spirituale. È proprio vero: da che Cristo ha assunto la natura umana tutto «ciò che è assunto è redento». La malinconia, come ogni sentimento, se è assunta, accolta, non solo può essere redenta, ma anche diventare via di redenzione.
Quando ci assale la malinconia perché vediamo i desideri più profondi del cuore che mai possono trovare pieno compimento, non siamo forse condotti ad accogliere con umiltà e serenità la nostra condizione di finitezza e ad aprirci a un “oltre” e ad un “Altro” (con la maiuscola, ma anche senza)? Quando la malinconia sta lì a ricordarci il dolore per una perdita - lutto, separazione, litigio - non ci è dato forse cogliere meglio la bellezza dei legami e l’importanza di custodirli e alimentarli?
Non è proprio la malinconia tante volte a suscitar poesia, musica, canto, bellezza, sensibilità, delicatezza, compassione riedificando umanamente l’uomo (Ungaretti)? E il vero umorismo non attinge così spesso a questo sentimento per poter «ridere delle cose che si amano e amarle ancora» (Gordon Allport). Mentre scende una lacrima, grandi e piccoli sorridono per quella strana capacità del clown di lasciar vedere il sole oltre le nuvole e trovare un senso dove il senso sembra perduto.
Che gli italiani siano malinconici e spaventati dinanzi al presente e al futuro, non solo non fa strano, anzi. E se fosse segno di un fondo roccioso di umana e, in radice, anche evangelica sensibilità in un’epoca di prevalente cinismo? E se questi sentimenti diventassero stimolo per una smilitarizzazione del cuore e per una globalizzazione della compassione? Malinconia e spavento non potrebbero essere trasformate in invocazione di salvezza e collaborazione con Colui che tutto assume e tutto redime? Scrive ancora Guardini: «La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo». Pensiamoci in questo tempo difficile e di rinnovata attesa, di apertura all’Eterno che viene nel Natale di Gesù.
Sacerdote e psicologo