giovedì 5 marzo 2020
Il coronavirus, l'ideogramma che dice crisi, voci e memorie bergamasche
L'epidemia trasforma le nostra vite. E se fosse un «momento cruciale»?
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Sembra non sia vero, come si è provato a sostenere erroneamente durante la crisi del 2008, che la parola crisi in cinese contenga il significato opportunità, oltre a quello universalmente riconosciuto di pericolo. Da una ricerca per nulla approfondita mi è parso di capire che sia momento cruciale la traduzione più corretta della seconda parte dell’ideogramma.

Sono bergamasco di nascita e toscano di adozione ed è quindi normale la mia preoccupazione – quasi tutti gli amici e parenti abitano in Lombardia. Ci sentiamo e ci scriviamo di frequente e da loro ho narrazioni piuttosto differenti. Ognuno ha avuto una diversa reazione all’epidemia del coronavirus. Questo mi ha dato la possibilità di provare a farmi un quadro non di cosa stia accadendo in quei luoghi, ma di cogliere le varianti percettive di quella realtà. In ordine sparso: «Sembra di essere in guerra», «Qui tutto chiuso, sembra la peste», «Tutta colpa di un serpente? Un pipistrello? Sarà, ma non conosco animali cattivi quanto l’uomo», «Quando si incontra qualcuno si alza la sciarpa fino agli occhi», «Un’amica mi ha invitato a cena. Non ci sono andata su consiglio di mio marito. Lei fa l’infermiera», «Hanno riaperto i bar, ma la consumazione è possibile solo al tavolo», «Parlo sottovoce perché mio figlio sta facendo un’interrogazione online e non vuole essere disturbato. Ps: ha cosparso scrivania e la cornice del pc di post-it colorati», «Se andrà avanti ancora molto, qui la mia azienda chiude», «È morto il suocero di Angela, ora lei, il marito e i figli sono obbligati a rimanere in casa per due settimane, come minimo», «Sono stufo, non vedo l’ora di tornare a lavorare, prendere il treno, la metropolitana...».

Stamattina una cara amica che abita nell’hinterland bergamasco mi ha scritto: «Sono giorni senza il tempo che scorre, sembra di essere tornati indietro di 40 anni. È bellissimo. Inizio ad amare questo virus». Il paradosso, parecchio utilizzato da sofisti e stoici, mi ha sollecitato questo scritto che non ha alcuna pretesa.
Nella trasmissione "Sapiens, un solo pianeta" condotta magistralmente su Rai3 da Mario Tozzi (che Dio lo protegga) ho ascoltato questa frase, forse nota ai più: «Se l’intera esistenza della Terra fosse pari a un giorno, quindi 24 ore, la presenza dell’uomo su di essa corrisponderebbe ad un battito di ciglia». È una frase inserita in una puntata che prova a rispondere a questa domanda: fino a che punto le piante siano intelligenti. Le risposte, argomentate e di facile fruizione, andavano tutte verso la stessa scoperta: le piante sono intelligentissime, capaci di modificarsi, trasformarsi a ogni ostacolo, sempre orientate verso la sopravvivenza. E gli ostacoli più ostici sono quelli imposti dall’uomo perché i cataclismi, le calamità provocate dalla natura sono eventi che ciclicamente avvengono e quindi le piante non si fanno trovare impreparate. Temo che questa risulti una semplificazione banale, e in effetti lo è e me ne scuso.

Da zero a sedici anni ho passato le mie vacanze estive, per un tempo piuttosto lungo – tre mesi circa – in un borgo sulle montagne della valle Brembana, Grimoldo il suo nome. Era il borgo natio di mio padre. Nella stessa casa dove lui era nato vivevamo il periodo estivo in compagnia di cugini, nonni, zii persone che durante l’inverno difficilmente frequentavamo. La particolarità del micro borgo, raggiungibile a fatica tramite sentieri ricavati all’interno del fitto bosco e scalinate interminabili, era che chi ci abitava era spesso parente alla lontana, alcuni alla lontanissima. Questo favoriva la relazione immediata con chiunque, di tutte le età. Ci si spostava solo a piedi o sul mulo quindi era impossibile non incontrarsi. D’inverno vivevamo in città con ritmi frenetici generati dal boom economico, e poi rallentati dalla crisi petrolifera del 1973 – con in mezzo il ’68/’69. D’estate si viveva il tempo della natura, un tempo dilatato e contemplativo, cadenzato dallo scampanellio dei diversi campanili che si affacciavano tutti sulla valle. Era la Religione del mio tempo (estivo).

Allora non sopportavo quel posto, ora lo ricordo con nostalgia e rimpianto. È lì che ho scoperto nella pratica cosa sia la Comunità, la Solidarietà, lì in quel luogo dove abita la parola che manca, dove i nudi volti dicono senza aprir bocca, dove le mani, oddio quelle mani, forti, sporche, capaci di schiaffeggiarti e subito accarezzarti. Lì ho visto correre galline e oche senza testa, mozzate da nonne vestite da lunghe gonne scure – si diceva che alcune di loro non portavano mutande e all’occorrenza, ovunque si trovassero, si limitavano ad aprire le gambe lasciando che il rivolo giallognolo s’inoltrasse tra le pietre mal riposte del selciato. Quanto silenzio in quella cascina circondata dal bosco. Nella fase terminale – aveva metastasi ovunque, al cervello soprattutto – abbiamo deciso di portare in quella casa di Grimoldo mio padre sessantatreenne. Gestirlo giorno e notte era faticosissimo. Quando siamo arrivati con ambulanza e infermieri gentilissimi e capaci, assoldati per 24 ore al giorno, siamo stati avvicinati da alcuni amici d’infanzia di mio padre, maschi e femmine, ci hanno portati in una stanza e in bergamasco stretto ci hanno detto: «Chi sono quelli in camice bianco? È brava gente, si vede, ma per favore dite loro che devono venire solo per le flebo, a far compagnia a Mario ci pensiamo noi giorno e notte. Voi adesso andate a riposare, qui ci siamo noi». È morto una notte circondato da noi figli, moglie, sorelle e dai suoi amici d’infanzia.

È questo che abbiamo perso, in modo irreversibile temo. Quello che stamattina la mia cara amica ha scritto, credo avesse a che fare con le mie estati a Grimoldo, dove il tempo non scorreva, era sospeso in un silenzio solido, dove ogni cosa, gesto, luce, persone "erano", dove ognuno aveva un nome e un volto e tutti erano parte di un corpo più grande del loro.
E se questo fosse un momento cruciale? Perché non approfittare di quel tempo sospeso per provare a cercare il senso in ogni cosa? O semplicemente per provare a mettere in moto almeno l’intelligenza delle piante?

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