domenica 27 maggio 2012
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Caro direttore,
perdonami, ma le perplessità cominciano a essere troppe. La prima riguarda una (ex) signora ministro che pare ami le sorti dei cani e dei gatti e ne intenda fare una battaglia parlamentare. Mi colpisce la passione e il contemporaneo assoluto disinteresse al destino di esseri umani incapaci di difendersi dalla volontà della donna che li porta in grembo, che di loro vuole sbarazzarsi. Un’altra perplessità che mi rode come un tarlo da quando in giro ci sono valanghe di disoccupati, cassintegrati, posti di lavoro scoperti che nessuno vuole coprire, è il grido a prescindere «benvenuti siano gli immigrati» (ancorché clandestini) perché abbiamo bisogno delle loro braccia. Ho iniziato a lavorare più o meno quando tu sei nato, alla metà degli anni 50, avevo quindici anni, reduce da una feroce 'trombatura' sui banchi del liceo. Nelle 'boite' (le piccole officine) di Torino c’era sempre posto per un apprendista che avesse voglia di imparare un lavoro. L’orario era di 48 ore la settimana, due settimane di ferie all’anno (e gli apprendisti avevano il permesso di uscire mezz’ora prima se erano iscritti a una scuola serale: è così che mi sono diplomato alle superiori).
Nel tempo, in vent’anni di conquiste sindacali, tra la fine degli anni 60 e i primi 70, si è passati a 40 ore settimanali e un mese di ferie. In questi ultimi 40 anni invece più nessuna modifica. Ma non esiste più il 'baracchino Fiat' che avvita lo stesso bullone 8 ore al giorno, alienato da quel lavoro. Oggi un bel robottino avvita 8 bulloni e con torsione controllata da un dinamometro, tutti in un colpo. A detta degli esperti, la produttività del lavoratore (indifferentemente operaio o impiegato) è stata moltiplicata per dieci grazie all’informatica e all’automazione.
Ora, non pretendo che quel "fattore 10" sia gratuito. Certo, il robot costa (di contro non sciopera), lo studio per produrlo costa, la sua gestione costa. Non pretendo quindi di affermare che gli utili netti dei 'padroni' siano automaticamente moltiplicati per dieci. Ma se per produrre la quantità di vetture degli anni 1965-70 la Fiat aveva un organico di quasi mezzo milione di dipendenti e ora riesce a produrre le stesse quantità con una frazione di quel numero, che cosa facciamo fare al resto degli (ex) dipendenti? Non basta citare «le nuove professioni», non ce n’è per tutti, e soprattutto occorrono 'skill' (abilità acquisite) che molti non possono avere, a causa dell’età o della storia culturale di ciascuno, altrimenti non avremmo cassintegrati a ogni angolo di strada. Ecco, perdona la lunghezza della descrizione che ho fatto, la domanda che mi pongo, il tarlo che mi rode, ciò che non capisco: possibile che gli utili netti di tutte le aziende che hanno ridotto così drasticamente il personale non siano saliti?
Possibile che non si possa passare a una diversa organizzazione del lavoro, grazie alla quale sia possibile 'lavorare meno, lavorare tutti', ma ovviamente lasciando i redditi dei lavoratori a un livello dignitoso. Caro fratello scout (eh, l’hai scritto e me lo sono segnato...) fai cosa vuoi di queste due domande, ma se puoi o hai tempo, rispondimi, perché mi sento proprio stranito da questo mondo e questo modo di ragionare. Grazie, e Buona Strada!
Giovanni Caluri, un vecchio scout del Torino 24 di Luciano Ferraris
 
Non sono uno specialista in tarli, caro Giovanni, mentre anch’io ho imparato qualcosa di fraternità e di giustizia. E ho pure appreso che un approccio 'pragmatico' alla novità tecnologica non comprende necessariamente una resa al disumano. L’ho imparato e continuo ancora, da cattolico e da scout. Proprio come te: strada facendo, spesso controcorrente e anche contromano, ma cercando di tenere sempre gli occhi bene aperti. È una buona lezione, basata su valori saldi (che mi scomodano e mi mettono alla prova e persino in crisi) e su un sano dubbio (che è amore consapevole per l’umanità e perplessità affilata sul mondo e le sue logiche). Una lezione che mi è servita e che mi serve anche nel mestiere di cronista. Nel quale ho capito che tutte le domande profonde e autentiche sono un inizio di risposta. Capisco bene quella più sintetica e che mi fai per prima. E ti dico che anch’io – pur amando francescanamente gli animali e pensando che ogni sano amore nulla toglie e tanto aggiunge alla nostra vita – ritengo che sia ben strano e triste un tempo in cui si mettono in campo energie e stentorei amplificatori a tutela di cuccioli d’animale e ritrosie o censure inconcepibili quando c’è da salvare un bambino ancora non nato. La tua seconda domanda sul lavoro – che trovo in bella assonanza con un passaggio centrale della riflessione con la quale il cardinale Bagnasco ha aperto i lavori dell’ultima Assemblea della Cei: consiglio di rileggerla – argomenta così tanto e così tanto ricorda che faccio fatica ad aggiungere qualcosa. A parte una correzione che propongo a te e che – l’ho già scritto più volte – vorrei fare a un modo di dire diffuso, ma che trovo profondamente ingiusto: non esistono «clandestini» sulla faccia della terra, nessun uomo e nessuna donna lo è mai. Le persone possono essere fuori da determinate regole, e dunque «irregolari», ma «clandestine» no.
Qualcuno pensa che sia solo un modo di pensare buonista, e invece è molto di più perché è impastato della sostanza stessa dell’idea cristiana di fraternità. Proprio quella che genera e motiva la tua analisi e il tuo appello sul lavoro e per il lavoro, guardando prima di tutto alle persone. È vero: non tutti i lavori sono uguali, e non tutti nel lavoro sono ugualmente dediti e onesti. Ma gli uomini e le donne sì.
Loro sono uguali, e a nessuno per smania di profitto e senza giustizia può essere negata la possibilità di realizzarsi attraverso l’«opera delle mani e dell’intelletto». E qui mi viene un modello (certo perfettibile) da indicare.
Ultimamente si cita – comprensibilmente – la Germania solo per l’ossessione rigorista che ha imposto all’Europa. Beh, vorrei che si tornasse a parlarne di più per il sistema partecipativo, e largamente inclusivo, che ha messo a punto e applicato nel mondo dell’impresa e del lavoro. È una buona strada, e può essere non solo 'copiata', ma sviluppata fino a diventare ottima. Perché si basa sul principio che nel cammino e nell’impegno comune tutti – imprenditori, lavoratori e anche finanziatori – condividono secondo eque gradazioni responsabilità, fatiche, problemi e successi. Anche in economia, lo stiamo sperimentando, non c’è libertà particolare senza responsabilità e senza senso della comunità. Grazie a te, caro Giovanni, per le tue vigorose perplessità e per l’amicizia ad Avvenire e a me.
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