Caro Avvenire,
quando sei disoccupato i pensieri sono ossessioni, ti rincorrono ovunque tu sei, qualsiasi cosa fai. Non c’è distrazione, svago. La mattina porti i bambini a scuola, poi in biblioteca per connettersi ad internet, consultare offerte e spedire curriculum così fino a sera. Risultati zero, chiamate nessuna, non hai fatto niente, non sai il senso della giornata trascorsa, nessun sorriso, strette di mano: è un peso che ti schiaccia e ti impedisce di muoverti dall’ultima panchina del parco. Ti trascini verso casa, ma non vuoi tornare perché non hai il coraggio di guardare i tuoi figli in faccia, per loro non hai fatto nulla, non hai messo insieme neanche un piatto di minestra fredda, ma il loro sorriso la scalderà.
Fabrizio Floris
Vicino a casa mia c’è un bar. È un bar popolare, con tanti tavolini, e la tv sempre accesa. Anche le slot machines ci sono, che lampeggiano e promettono fortuna. Qui si può restare seduti a un tavolo per tutta la mattina, semplicemente consumando un caffè. Caffè per lo più già alle otto “corretti”, da clienti che, mentre fuori tutti si affrettano, non hanno dove andare. Gente con i capelli grigi, ma anche giovane. Entrano, si siedono e si mettono a guardare distrattamente la tv. Qualcuno legge un giornale sportivo e commenta ad alta voce la vittoria della Ferrari a Montecarlo. Un altro, sui cinquanta, ribatte, si discute di motori. Ma presto la conversazione langue, fiacca. Ogni tanto, dalle slot, lo scroscio illusorio di monete. Una vincita da poco. E subito il giocatore ricomincia. Un ragazzo non alza gli occhi dal suo smartphone, digita, digita nervosamente. Non ha nemmeno trent’anni, dovrebbe essere a lavorare. Se ne sta seduto solo, e non parla con nessuno. Entrare in questo bar dove anziani soli e disoccupati tirano l’ora di pranzo, stringe il cuore. Come riempiono di pena le poche righe di questa concisa, bellissima lettera. Che dice dei pensieri che prendono a rincorrerti, non appena apri gli occhi, se non hai lavoro. Porti i bambini a scuola, ti salutano, “ciao papà”, e in quel momento la giornata ti si spalanca davanti, lunga, vuota. In biblioteca, dove i ragazzi studiano e tu hai troppi anni più di loro. Rispondere alle offerte di impiego, a tutte quelle possibili, allegando il numero di cellulare. Ma ne hai già spedite tante di lettere, che non riesci a credere che qualcuno ti risponderà davvero. Se non sei più giovanissimo, è più difficile. E poi, alzarsi e andare al parco, per tirare sera. Solo. Quanto care ti sembrano ora, ti ricordi, le voci, e anche le discussioni coi colleghi. La mancanza di lavoro è molto più che il venir meno di una sorgente di reddito, ha detto il Papa a Genova, e ha aggiunto: «Gli uomini si nutrono del lavoro». Non solo nel senso del pane; si nutrono del fare, del sentirsi utili, dell’amicizia di chi ti lavora accanto. È una deprivazione drammatica di umanità, la disoccupazione, e come lo avverti bene in questa breve folgorante lettera. Però, signor Floris, non è proprio giusto non avere il coraggio di tornare dai suoi figli. Più che mai ora, lei fa tutto per loro: si alza, facendo fatica, li accompagna a scuola, poi affannosamente cerca, cerca; e ancora sostiene le ore delle giornate vuote, interminabili, e l’avvilimento della disoccupazione, e non si arrende, e tutto questo lo fa per loro. E quanto pesa e quanto vale ognuna di queste lunghe giornate, lo sa solo lei. Anzi, lo sa anche Dio, che la guarda continuamente. Non smetta di combattere con tutto il suo coraggio, e non smetta di pregare.