Caro direttore,
sulla "battaglia" per quella che è un’assoluta norma di civiltà – la concessione della cittadinanza ai minori sostanzialmente italiani per formazione – vedo, sulla stampa, una certa confusione. Molti giornali (spero non i disegni di legge, che non conosco) mettono insieme ius soli e ius culturae, rischiando così di discriminare chi è culturalmente italiano, ma non è nato in Italia, pur avendo compiuto un corso di studi in Italia. Va tenuto presente che molte mamme immigrate, soprattutto dai Balcani e dal Nord Africa (nella mia zona almeno un 30%), preferiscono rientrare nel loro Paese per portare a termine la gravidanza, sia per essere assistite dalle rispettive madri, zie e altre donne di casa, sia per spiegarsi meglio con dottori e infermiere al momento del parto. I fautori della norma, come chi scrive, dovrebbero concentrarsi sullo ius culturae, più simpatico, anche a prima vista, dello ius soli. Quest’ultimo nulla aggiunge di sostanziale allo ius culturae, e rischia di accreditare il (falso) slogan che "la cittadinanza non si regala".
Mario Sica
Gentile direttore,
si torna a parlare di attribuzione della cittadinanza a stranieri, vuoi per nascita vuoi per frequentazione di scuole italiane per alcuni anni. Un tale orientamento, in termini così drastici e definitivi, mi lascia qualche dubbio. Credo fermamente quanto la nostra dottrina sociale ha sempre affermato e ribadito: l’importanza della famiglia nella formazione della personalità del bambino/ragazzo. E allora come mai a cuor leggero, in questo caso, si enfatizza o un fatto meramente "geografico" o un dato scolastico? Nessuno dubita dell’incidenza che la partecipazione ad attività scolastiche può avere nella costruzione di modi di essere e di affrontare la vita, ma non esageriamo confondendo e assumendo in toto un elemento istruttivo a decisivo elemento formativo della personalità. Se un fanciullo trascorre diverse ore (e per diversi anni) ad apprendere la lingua italiana piuttosto che elementi di storia o aritmetica, tornando poi a casa in un ambiente che è ben altro come abitudini e regole di comportamento rispetto a quanto avviene nella normalità (auspicabilmente) delle famiglie italiane, come si può affermare che la mera frequenza scolastica garantisca indefettibilmente che costui non elabori convinzioni che portino ad atteggiamenti tutt’altro che benevoli verso il nostro Paese e le regole proprie della nostra civiltà? Non sarebbe opportuno e prudente, al più, riconoscere un "diritto alla cittadinanza" o una cittadinanza condizionata, da attribuire definitivamente e a ogni effetto alla maggiore età (per favore, a 18 anni!), dopo un adeguato esame, quando la personalità è ormai formata e di più attendibile considerazione? In tal modo, sarebbe possibile considerare il soggetto "straniero", qualora il suo comportamento fosse censurabile sotto qualunque profilo, con i provvedimenti in tal caso adottabili, che invece sarebbero esclusi dall’attribuzione della cittadinanza sin dal primo momento.
Paolo Aiachini, avvocato
Si possono trovare, gentili e cari amici, molti e persino comprensibili motivi per non cambiare la legge sulla cittadinanza che risale al 1992. Ma non c’è nemmeno una ragione per mantenere lo status quo, e questo perché le attuali regole generano ingiustizie, sperequazioni, sofferenze inutili e controproducenti a persone che sono ormai italiane per tutto tranne che per il passaporto. Tre anni fa, nel pieno dell’esame di un testo di legge sullo ius culturae e sullo ius soli attenuato – quello fermatosi a un passo dal traguardo per una congiura di pavidità, insensatezze e calcoli politici – sulle pagine di "Avvenire" sviluppammo una lunga campagna per documentare tutto questo.
Qualcuno non capì, qualcun altro fece finta di non capire, altri ancora (davvero troppi...) mistificarono e raccontarono – mentendo e sapendo di mentire – che addirittura ci si preparava a dare la cittadinanza italiana a bimbi e bimbe nati sulle spiagge o sugli scogli raggiunti dai profughi d’Africa e d’Oriente. La realtà è che invece la misura avrebbe riguardato ragazze e ragazzi che in Italia sono nati o arrivati da piccoli, che qui hanno concluso almeno un ciclo di studi, che parlano italiano, pensano italiano, vivono italiano e che rappresentano una parte importante della gioventù di questo Paese in rapido invecchiamento per gli squilibri demografici frutto di dissennate politiche anti-familiari e di egoismi che stanno impoverendo e incattivendo il clima cultural-politico e svuotando le culle.
Lo ius soli non è una bestemmia o una bizzarria, sia chiaro, e ho in mente e sotto gli occhi diverse situazioni nel mondo globalizzato di oggi in cui gli Stati mescolano ius sanguinis e ius soli nel riconoscimento della cittadinanza (per evitare ad esempio che siano riconosciuti cittadini uomini o donne che non hanno nessun rapporto con una terra se non l’origine via via più lontana di qualche antenato). Ma mi piace molto, e mi convince, la "via italiana" immaginata e proposta all’inizio di questo decennio ormai agli sgoccioli dall’allora ministro per la Famiglia e l’Integrazione Andrea Riccardi: lo ius culturae. Trovo che sia una affermazione di rispetto e di fiducia verso i nuovi italiani e contemporaneamente contenga una simmetrica riaffermazione di rispetto e di fiducia per la nostra cultura. Una cultura capace di essere comunicata e condivisa, ancora e sempre in grado di attrarre per i suoi elementi di civiltà, cioè di umanità, di giustizia e di bellezza.
La penso, insomma, e non è certo un mistero, più come Mario Sica che come Paolo Aiachini. Su un punto però vorrei essere molto chiaro, rivolgendomi ai signori parlamentari: attenti a quel che dite e quel che fate o, per essere più precisi, non fate. Se voi, che siete i nostri rappresentanti e dovete contribuire in modo decisivo a preparare con saggezza la via del futuro, non siete capaci e determinati nel portare sino in fondo l’iter legislativo di una nuova e buona legge sulla cittadinanza che contenga anche lo ius culturae, meglio che lasciate stare, meglio addirittura che stiate zitti. Non si può e non si deve far balenare un atto di sensatezza e di giustizia e poi non compierlo. Non si può e non si deve dire un’altra volta a circa 800mila giovani italiani senza cittadinanza vorrei ma non posso, o – peggio – non voglio perché tu non sei italiano come gli altri, o – peggio ancora – non voglio perché tu non mi interessi. Se non si è capaci di fare sul serio la cosa giusta, insisto, meglio stare fermi, e meglio tacere. Senza insultare di nuovo – con una dimostrazione di cinismo, impotenza e ignavia – circa 800mila giovani italiani senza cittadinanza.