La guerra è fabbrica di crimini. C'è solo da lavorare per la pace
sabato 25 giugno 2022

È giusto ascoltare le ragioni di tutti, ma una nuova lettera sulla presunta viltà imbelle dei pacifisti spinge a ribadire le ragioni del no alla logica e alle pratiche belliche e del sì al coraggio umano di abolirle

Signor direttore,
l’invasione in Ucraina ha svelato l’animo umano, o probabilmente disumano, di chi pensa di essere uomo di fede e, nel contempo, manipola la Parola di Dio in base ai propri comodi. Ha cominciato il patriarca ortodosso russo Kirill con il passo evangelico “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia”, interpretandolo e completandolo così: perché saranno giustiziati. Dopo lui hanno continuato, e stanno continuando, i cosiddetti o sedicenti pacifisti, ventilando una generica pace, senza aver inteso qual è quella auspicata nel (e dal) Vangelo. «Beati i costruttori di pace», infatti, significa lavorare per essa, non vivere estraniati dai conflitti e stare ad osservare. Sì, lavorare. I pacifisti, quindi, sono tutt’altro che lavoratori e costruttori di pace perché, per preservare le loro comodità e abitudini, o meglio il loro tenore di vita, si smarcano dalle guerre con generiche indolenti dichiarazioni, proteste e sfilate, volte a dare degli inetti a coloro che non negoziano, mentre loro (i pacifisti) si fanno annichilire dallo spavento e praticano l’accidia. Cosa farebbero, invece, se un’invasione ricadesse nel loro territorio? Non chiederebbero, anzi non pretenderebbero aiuti militari da chiunque? In sostanza i veri costruttori della pace altrui dovrebbero e devono essere disposti a perdere la propria. La prudenza di Dio non è quella degli uomini, ovvero un alibi alla pigrizia, all’inerzia, al disinteresse, o peggio all’interesse materiale. È meglio correre il rischio di sbagliare per amore, piuttosto che rinunciare a lottare per i grandi valori.

Giovanni Panunzio, Cagliari

Mi sforzo di ascoltare a fondo le ragioni di tutti, mentre continuiamo a informare con sofferenza sui massacri d’umanità in Ucraina, ma temo, professor Panunzio, che lei abbia preso una solenne cantonata polemica. La guerra non l’hanno scatenata né propiziata i pacifisti e non sono i pacifisti a portare la colpa dell’escalation a cui stiamo assistendo in Ucraina. Non sono i pacifisti ad applaudire dagli spalti la carneficina che avviene lì e in altre parti del mondo sulle quali troppo pochi posano lo sguardo e per le quali non ci si muove alla stessa, necessaria, compassione. E soprattutto non sono i pacifisti ad avere sulla coscienza le morti che si moltiplicano in battaglia e tra i civili, quei morti civili che finalmente sui giornali, in tv e alla radio non definiamo più (almeno questa ipocrisia l’abbiamo bandita!) «danni collaterali», ma vittime di crimini contro l’umanità che si sommano terribilmente alle vittime dei crimini che non uccidono i corpi, ma li violentano e violentano le anime. Crimini, tutti, che non sono accidenti e casi estremi in una guerra, ma ne sono parte integrante perché la guerra stessa è crimine, e fabbrica criminale. I nostri nonni e le nostre nonne, le nostre madri e i nostri padri a tanti di noi l’hanno testimoniato in modo incancellabile, anche se tra noi c’è chi non ricorda e chi proprio non sa o non vuol sapere...
La colpa di aver scatenato tutto questo nuovo orrore è del presidente della Federazione Russa che ha deciso l’invasione dell’Ucraina, ma anche di altri. Anche di Paesi, che non sono in guerra – no, assolutamente, ci mancherebbe! – ma armano la guerra e in alcuni casi addestrano chi la combatte (da otto anni, non solo negli ultimi terribili quattro mesi). Paesi, purtroppo anche il nostro, purtroppo anche la nostra Europa, che intanto continuano a fare affari gassosi (e comunque fossili) con la Russia di Vladimir Putin, pur dietro la spinosa foglia di fico di altre sanzioni che non fermano le ostilità e consolidano, nonostante il coraggio civile e nonviolento di molti oppositori, un vasto blocco di consenso interno attorno all’uomo del Cremlino.
Il coraggio della pace è invece il no alla violenza che uccide. Non lo chiami paura, professore, lei che insegna Religione, perché il sentimento umanissimo della paura, se c’è, è paura per l’umanità e non per sé stessi e bisogna aver rispetto per chi sa nutrirlo in un mondo purtroppo ostaggio di poteri presuntuosi, cinici e arroganti. Non faccia, anche lei, la caricatura di chi sceglie questo povero e vulnerabile coraggio della pace. Non sfiguri, a parole, chi faticosamente e con dolore cammina controcorrente (ed esposto al dileggio) in un mondo, anche comunicativo, purtroppo invaso dai fumi bellici e dai canti dei cantori, persino inconsapevoli, di quello che papa Francesco chiama il «cainismo». Il Dio di Gesù Cristo, il Dio in cui anch’io credo e in cui tanta parte dell’umanità confida e spera, non è il Signore degli eserciti lanciati a battaglia. E se bisogna, come lei dice, correre «un rischio per amore» – e bisogna! – dobbiamo saper scegliere il rischio di essere quelli che resistono e non si rassegnano al male, quelli che lottano per i grandi valori, ma lo fanno senza ammazzare. L’abolizione della guerra comincia dalle nostre scelte e dalla cancellazione di una retorica che è anche quella, ingiusta e ormai insopportabile, contro i «vili» che non vogliono affrontare il nemico. Vile è chi acconsente ancora, nonostante quel che sappiamo, nonostante quel che vediamo, all’insensato omicidio di massa che è la guerra, che è ogni guerra. E con la scusa di non voler fare la pace sulle teste degli altri, fa la guerra con i petti degli altri. Basta, per pietà dei morti e dei vivi.

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