Rancore e pregiudizi sono radicati fra le persone più fragili, ossia più povere anche di sapere. Persone che non riuscendo a capire la complessità sono alla ricerca di spiegazioni semplici: vere o false che siano L’unica strada per uscire dalla crisi è quella della coesione sociale che si concretizza in più servizi e più occupati in ambito pubblico
L’immagine che ci restituiscono le analisi della società italiana, in particolare il 52° Rapporto Censis, è quella di una nave inclinata sulla quale, invece di darsi da fare per rimettersi in asse, si spendono le energie per tenere lontani i naufraghi di altri relitti in cerca di un pezzo di legno a cui aggrapparsi. Un’immagine che forse si attaglia all’intero Occidente. Sulla nostra nave inclinata i più agguerriti sono i passeggeri dei piani bassi, dove si accalcano i viaggiatori di terza classe. Qui l’acqua è già entrata, in qualche cabina si combatte addirittura per non annegare e, mentre in tutti cresce la paura di finire sott’acqua, si fa sempre più forte la convinzione che la vera minaccia non sia né il mare grosso né l’inettitudine dell’equipaggio, ma i naufraghi dispersi in mare che cercano riparo sulla loro imbarcazione. Così avanza la richiesta di tirare su tutte le funi e di puntare le armi contro chiunque osi tentare la scalata. Conclusione affrettata di chi, pensando che il peso sia l’unica causa di inabissamento, individua nel divieto d’ingresso la sola strada per mantenersi a galla.
Abbandonando la metafora e venendo alla realtà, il Rapporto Censis rivela che una gran parte degli italiani attribuisce agli immigrati la responsabilità della propria decadenza, pensando che si siano appropriati del nostro lavoro, delle nostre case popolari, dei nostri sussidi. Il 58% degli italiani pensa che gli immigrati ci sottraggano posti di lavoro. Il 63% è convinto che rappresentino un peso per il nostro welfare. Il 52% è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani. Convinzioni che sfociano nel risentimento, nell’avversione e in ogni altra forma di pregiudizio: il 75% dei nostri connazionali pensa che l’immigrazione aumenti il rischio di criminalità, il 69,7% non vorrebbe come vicini di casa rom, zingari, gitani, nomadi, il 24,5% persone di altra etnia, lingua o religione. «S ono i dati di un cattivismo diffuso – avverte il Censis – che erige muri invisibili, ma non per questo meno alti e meno spessi ». E il rapporto non smette di sottolineare che rancore, pregiudizi e cattivismo sono particolarmente radicati fra le persone più fragili ossia più povere non solo di soldi, ma soprattutto di sapere. Persone che non essendo in grado di capire la complessità in cui siamo immersi sono alla disperata ricerca di spiegazioni semplici, non importa se vere o false. E in un’epoca in cui superficialità e pensiero bre- ve la fanno da padrona anche in politica, non manca chi quelle spiegazioni semplici le dà, alimentando un sentimento di odio verso gli ultimi che tuttavia non serve a sollevare la sorte dei penultimi. Altrove, infatti, si annidano le ragioni della nostra decadenza.
Volendo riavvolgere il filo della crisi nella quale ancora ci dibattiamo, dovremmo sicuramente andare a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando venne ridefinito l’ordine economico mondiale e venne riscritta la geografia internazionale del lavoro secondo i bisogni esclusivi delle grandi imprese. Una rivoluzione economica e normativa passata alla storia sotto il nome di globalizzazione che oltre a lanciare il lavoro nella tormenta provocò un’ingiustizia crescente nella distribuzione del reddito e della ricchezza. I continui trasferimenti produttivi, associati a una crescente automazione, produssero meno occupazione e meno diritti al Nord, più lavoro sfruttato al Sud. E in ambedue gli emisferi si registrò una caduta della massa salariale. Nei soli Paesi industrializzati, dal 1975 al 2014, la quota di prodotto lordo andato ai salari è sceso di 9 punti percentuale dal 72% al 63%. Dolce musica per i detentori di capitale, ma al tempo stesso rumore sordo di tempesta: se i salari scendono come si chiuderà il cerchio fra produzione e consumi?
Non volendo penalizzare i profitti, si cercò di mettere una toppa spingendo il sistema a comprare a debito. Fra il 2000 e il 2008 si ebbe il raddoppio della massa debitoria mondiale, la pratica del debito divenne così abituale che molti istituti bancari, sulle due sponde dell’Atlantico, persero il senso della misura fino ad arrivare alla bancarotta. L’immagine degli impiegati che il 15 settembre 2008 uscirono con gli scatoloni da una Lehman Brothers ormai fallita è diventata il simbolo di come si sia conclusa l’ubriacatura da debiti. Ma il fallimento della Lehman Brothers era solo l’inizio della fine. Per il ruolo giocato dalle banche, ogni crisi bancaria finisce con il travolgere l’economia reale e volendo evitare il peggio, in Europa tutti i governi sono intervenuti per salvare i propri istituti. Ma i soldi da pompare negli istituti bancari i governi non li avevano e successe che per salvare le banche i governi indebitarono se stessi. Fra il 2008 e il 2014 il debito pubblico interno all’Unione Europea è aumentato di 24 punti percentuale passando dal 68 al 92% del Pil. Quanto all’Italia che già viaggiava cronicamente con un debito oltre il 100%, è arrivato al 132% del Pil, anche se, va detto, solo in minima parte per i salvataggi bancari.
Tutta questa storia non avrebbe senso di essere riepilogata se non fosse che in Europa ha avuto un epilogo drammatico, in particolare nei Paesi dell’Eurozona. Ossessionati dall’imperativo di mostrarsi debitori affidabili, i Governi europei si sono imbarcati in misure di austerità che hanno reso ancora più grave la crisi innescata dai fallimenti bancari. E le tre piaghe, disoccupazione, povertà e disuguaglianze, tipiche dei tempi di recessione, hanno lasciato un segno profondo in tutta Europa, in particolar modo quella meridionale. In Italia ce lo ricordano i tre milioni di disoccupati e i venti milioni di persone a rischio povertà. Sacche di risentimento che i capi popolo indirizzano strumentalmente verso gli immigrati.
Ma se il cattivismo è figlio dell’insicurezza, è questa che dobbiamo eliminare per riportare concordia e accoglienza. E la strada non può essere quella delle riforme che per corteggiare il mercato abbassano diritti e salari. L’unica strada possibile è quella della coesione sociale che si concretizza in più servizi pubblici e più occupati in ambito pubblico. Traguardo possibile, ma che richiede due azioni coraggiose: maggiori introiti da una più equa politica fiscale che torna a incidere sui super ricchi e una diversa gestione del debito pubblico. La morale tedesca che impone di ripagare i debiti a ogni costo va salvaguardata, ma quando il debito diventa così ingombrante da compromettere la convivenza umana, allora va riscoperto il Giubileo. Gli ebrei lo praticavano come abitudine ogni 50 anni. Noi lo potremmo praticare come misura eccezionale per ripartire. Ma serve un movimento culturale che spinga in questa direzione. Potrebbe essere il nostro impegno per convogliare in un’azione positiva le energie oggi spese verso il cattivismo.