Andrea Pellizzer, S.Stino di Livenza (Ve)
Dicono che la storia non si ripete ma in realtà – come è stato da più parti osservato – l’attuale crisi globale presenta più di un’analogia con quella epocale degli Anni Trenta che, in America, diede appunto origine al New Deal, il piano di riforme economiche e sociali promosso da Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il 1937 allo scopo di risollevare il Paese dal «big crash». Anche allora, gli Stati Uniti come il mondo intero, si trovarono ad affrontare la dismisura tra la speculazione finanziaria e la crescita reale, il crollo delle Borse, il collasso del credito, la riduzione dei consumi, la recessione con la conseguente piaga sociale di tanti posti di lavoro perduti: tutti sintomi chiaramente presenti anche oggi, a conferma che di un male molto simile si tratta. Ma mentre l’Europa, purtroppo, scelse di affrontare la crisi e la povertà affidandosi alla sciagurata e funesta medicina dei nazionalismi e dei totalitarismi, gli Usa intrapresero una strada ben diversa, che finì col salvare il Paese e i suoi ideali, ovvero la strada della ripresa dell’etica del lavoro, dell’intervento statale basato sulle geniali visioni economiche di John Maynard Keynes, autore della «Teoria generale dell’occupazione»: tre milioni di lavoratori disoccupati vennero assorbiti in una serie di grandi lavori pubblici, dove il ruolo dello Stato nell’attività produttiva e nel processo economico diveniva centrale per risollevare le sorti della nazione e ridistribuire verso il basso la ricchezza. La realizzazione di infrastrutture e la fondazione del Welfare State (Stato assistenziale) per proteggere la forza lavoro senza impiego, furono i cardini non solo della «rivoluzione» rooseveltiana che trasformò gli States in una vincente potenza mondiale, ma anche di ogni moderna concezione liberale. Cardini che oggi molti disconoscono, e vorrebbero dimenticare. Se questa ricetta storica sia ancor oggi applicabile, magari in versione riveduta, non sta a me giudicare. Certo è un imperativo etico tener conto delle istanze da lei ricordate, perché è proprio nei periodi di crisi che rischia di approfondirsi il fossato tra i deboli e i più fortunati, compromettendo – oltre all’equilibrio del corpo sociale – il bene comune.