La pena più appropriata è la crocefissione o almeno lo smembramento del cadavere dopo l’esecuzione. Almeno così sembra pensare il procuratore saudita che vuole la condanna a morte di Murtaja Qureiris. Il suo crimine è davvero feroce. A dieci anni – si era ai tempi delle cosiddette Primavere arabe – guidò un piccolo corteo di biciclette per chiedere più libertà, in particolare per la minoranza sciita, sempre trattata duramente dalla Casa reale dell’Arabia Saudita. A tredici anni venne arrestato con la famiglia mentre cercava di raggiungere il vicino Bahrein. Da allora è in un carcere per terroristi e ha confessato - sotto tortura, sembra - di aver partecipato, quando aveva undici anni, a una protesta violenta contro una caserma di polizia, accompagnando il fratello maggiore, rimasto ucciso negli scontri.
Insomma, questa è la giustizia nel mondo di Mohammad bin Salman, per tutti MbS, principe ereditario e reale detentore del potere nel Paese. Una brutalità sconvolgente, ancor più se correlata alla pochezza dei reati contestati, per di più commessi da giovanissimo, sotto l’età minima per essere considerati giuridicamente responsabili. È una violenza repressiva che non sorprende chi va al di là degli specchietti e dei belletti con cui MbS cerca di convincere l’Occidente della modernizzazione in corso in Arabia Saudita. Le donne possono ora guidare, è stato sbandierato; certo: ma la repressione verso chi chiede più diritti è spietata, con arresti e punizioni corporali che mirano a spegnere ogni attivismo civico o femminista. Si fanno riforme cosmetiche a beneficio dell’immagine internazionale, ma si continua a sostenere la versione più dogmatica e intollerante dell’islam, come quella wahhabita e salafita, che tanti guasti ha provocato all’interno e all’esterno del mondo islamico.
Sotto l’etichetta della lotta al terrorismo, nel Paese vengono arrestati, condannati e giustiziati oppositori in gran numero: riformisti che chiedono aperture reali, sospetti simpatizzanti dei Fratelli Musulmani – il più importante movimento politico islamista che rappresenta l’incubo di molti sovrani del Golfo –, e soprattutto gli appartenenti alla minoranza sciita. Questi ultimi vivono da decenni in una condizione di oppressione e oggettivo apartheid, peggiorata con l’accentuarsi della lotta geopolitica con l’Iran, dove l’islam sciita è religione di Stato.
Forte del sostegno acritico e totale che ricevono dal presidente Trump, la cui amministrazione è probabilmente la più sbilanciata da decenni nel guardare agli avvenimenti del Medio Oriente, MbS ha lanciato da anni le forze saudite in una guerra contro le milizie Houthi (sciite) nello Yemen che ha già causato decine di migliaia di morti, in massima parte civili, nella quasi completa indifferenza internazionale. E c’è certo la sua volontà dietro le mani di chi uccise a tradimento, facendone a pezzi il corpo, l’intellettuale saudita dissidente Jamal Ahmad Khashoggi nell’autunno dello scorso anno. Un crimine efferato, compiuto nel Consolato saudita in Turchia, che sembrava aver scosso il sistema di potere del principe ereditario, ma che non ha minato la volontà repressiva verso ogni forma di dissenso, in particolare se collegato alla religione.
La pratica della tortura, delle frustate, degli abusi sessuali, delle pene corporali e delle esecuzioni pubbliche è sfortunatamente una pratica quotidiana in Arabia Saudita; ironicamente questa orrenda prassi è una delle poche cose che la accomuna al suo più acerrimo nemico, ossia la Repubblica Islamica dell’Iran, altro Paese uso torturare e condannare a morte dissidenti e oppositori.
Ma giustiziare un ragazzo di diciotto anni, colpevole di reati minori (chissà se realmente commessi) quando aveva dieci anni – era solo un bambino insomma – per mandare un segnale di rigore sembra davvero intollerabile. Nonostante il fiume di soldi che il principe Mohammad bin Salman investe per migliorare la propria immagine e quella del Regno, e nonostante i peana dei suoi ben pagati cantori interni e internazionali.