(Ansa)
Quando si introduce una nuova tassa è sempre bene guardare agli insegnamenti che derivano da provvedimenti simili già messi in pratica altrove. Nel caso di un’ecotassa (o carbon-tax o tassa sulle emissioni di CO2 a seconda di come la si vuole chiamare) le lezioni che andrebbero tenute in considerazione arrivano dalla Francia e dalla Svezia. La rivolta contro l’introduzione nel 2018 di una tassa sui carburanti, scatenata dal movimento dei Gilet Gialli che hanno messo a ferro e fuoco Parigi spingendo il presidente Macron a tornare sui suoi passi, è diventata un caso di scuola sotto molti punti di vista. In seguito alle prime contestazioni, poi degenerate in altro, il dibattito su tassazione e inquinamento in Francia è evoluto arrivando a porre un paio di punti fermi. Il primo è che, per essere socialmente accettato, un nuovo balzello a favore dell’ambiente non deve essere percepito come un prelievo senza compensazione. Il secondo è che il consumatore deve in ogni caso avere una possibilità di scelta alla propria portata. Diversamente, diventa molto difficile acquisire alla causa ambientale larghe fasce di popolazione, le più povere, ma non solo loro.
Come si è capito in Francia, il concetto di una tassa pensata a misura di area urbana, ma sottoposta a territori non urbani, ha rappresentato una miccia capace di far esplodere altre (e ben peggiori) tensioni che covavano sotto il tappeto. Il fatto è che vere alternative per determinate categorie di lavoratori fortemente dipendenti dall’auto in quanto residenti in territori mal serviti dal trasporto pubblico, erano difficili da trovare. Un esempio simile, anche se a impatto molto minore, lo si è visto in Italia quando è stata introdotta la tassa sui sacchetti per la frutta sfusa al supermercato. Imposizione giusta, a favore della sostenibilità, ma quale alternativa si è data al consumatore dopo l’introduzione del micro balzello? Se l’unico modo per acquistare quel frutto è pagare una 'tassa', ecco che il servizio alla causa ecologica rischia di essere poco efficace, oltre che poco compreso, proprio perché non riesce a incidere sui comportamenti.
L'altro caso di scuola in termini di tasse per l’ambiente e contro il riscaldamento climatico è la Svezia. A Stoccolma la carbon tax esiste fin dal 1991: la Svezia è stato il primo Paese in Europa a introdurla, pur avendo un’economia fortemente legata alle fonti fossili. L’imposizione tutta- via è socialmente accettata, nessuno la mette in discussione e ha contribuito ad abbassare significativamente le emissioni di CO2, tanto che il Paese potrebbe raggiungere l’obiettivo di essere carbon-neutral già nel 2045. Come è stato possibile? I punti forti del modello svedese sono sostanzialmente due. Il primo: la tassa è stata introdotta in modo molto graduale. Il secondo: è stata ampiamente compensata con riduzioni di tasse per le famiglie e le fasce deboli. In sostanza non si è cercato di fare cassa con i nuovi balzelli, ma si è consentito alle persone di convivere con il cambiamento cercando di neutralizzare gli aumenti. Per dirla più chiaramente: i consumatori non diventano più poveri se continuano a vivere come prima, ma possono risparmiare se consumano di meno o se lo fanno diversamente. Allo stesso tempo però la carbon tax si fa sentire su quella parte di popolazione il cui livello elevato di consumi dovuto allo stile di vita comporta maggiori emissioni.
Ecotassa graduale e non punitiva: questa potrebbe essere la sintesi delle lezioni francese e svedese. Di fatto questa è anche la ricetta che ha fornito l’Ocse nel rapporto 2019 sulla tassazione dei consumi di energia. Nel documento si fa notare che nei 44 Paesi maggiormente sviluppati il peso medio dell’imposizione sulle emissioni di CO2 è pressoché nullo. Questo perché gli unici due carburanti in cui le accise superano ampiamente i 30 euro per tonnellata di CO2 – che è considerato il valore minimo di riferimento per raggiungere gli obiettivi di Parigi – sono la benzina, con 85,83 euro per tonnellata di CO2, e il diesel, con 73,76 euro. Invece per il carbone, l’olio combustibile, il cherosene, il Gpl, il Gas naturale e altri combustibili fossili, che non sono certo a emissioni zero, la tassazione media nel mondo è molto bassa: va da un minimo di 0,7 euro a un massimo di 11 euro. Per l’Ocse si tratta di una distorsione sulla quale occorre intervenire: l’85% delle emissioni di anidride carbonica legate all’energia, infatti, non derivano dal traffico su strada, ma so- no prodotte da altre fonti. Eppure solo il 18% delle emissioni 'non stradali' vengono attualmente tassate. Il restante 82%, come nel caso del carburante per il trasporto marittimo e per quello aereo, non ha alcuna imposizione.
Gli analisti dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sostengono che per una trasformazione virtuosa dei consumi di energia la tassazione dovrebbe aumentare per avvicinarsi gradualmente almeno al livello simbolico dei 30 euro per tonnellata di CO2 emessa per ogni tipo di carburante. La cosa più interessante che emerge dal rapporto sono le proposte di riforma fiscale suggerite ai Paesi per far fronte al cambiamento. L’Ocse suggerisce esplicitamente, dopo l’aumento della carbon tax, di «riconfigurare la fiscalità al servizio di una crescita inclusiva», ad esempio abbassando le tasse sui redditi, ma anche di investire le possibili risorse aggiuntive in educazione, sanità e istruzione, oltre che di cogliere l’occasione per ridurre i debiti pubblici grazie alle maggiori entrate. Le ricette fiscali, si legge ancora nei consigli forniti agli Stati, possono anche servire a finanziare trasferimenti diretti alle famiglie in modo da attenuare gli effetti penalizzanti degli aumenti e aiutarle a ridurre la dipendenza da beni e servizi ad alte emissioni di CO2.
In Italia tuttavia i margini per un’ecotassa sulle fonti fossili sono abbastanza ridotti. Se si guarda a benzina e diesel, infatti, l’Italia è già al quinto posto tra i Paesi con l’imposizione fiscale più alta sulle emissioni di diossido di carbonio, con un livello medio di circa 240 euro per tonnellata di CO2. Stessa posizione in classifica per le altre fonti fossili, anche se qui i margini per aumenti sono molto più ampi, dato che l’accisa media è di circa 22 euro per tonnellata di CO2, dunque lontana dal valore di riferimento minimo di 30 euro. A prescindere da queste considerazioni, nel momento in cui anche in Italia si sta ragionando su come ridisegnare le tasse in chiave ambientale, i consigli dei ricercatori e le lezioni dell’esperienza maturata in altri Paesi possono essere una guida utile da tenere in considerazione.