Foto d'archivio Ansa
Nel 1993 Laura Pausini cantava La solitudine, con cui vinceva l’edizione del Festival di Sanremo, nella categoria Giovani. Un testo che racconta di un legame d’amore spezzato, che produce come esito finale 'il restare soli' e quel sentimento doloroso correlato, che sembra quasi 'innaturale': la solitudine. Gli esseri umani per loro natura sono 'animali sociali', per stare bene hanno bisogno di vivere in relazione con gli altri, di essere ri-conosciuti, di sentirsi parte di una comunità. La solitudine non ci è connaturata, è persino temuta dalla maggioranza delle persone, anche se talvolta alcuni fanno credere il contrario, che sia una loro scelta. Sul finire degli anni Novanta, con il fiorire della globalizzazione, il termine solitudine entra anche nel lessico della sociologia. È uno dei più importanti maestri del nostro tempo, Zygmunt Bauman, a introdurre il tema nel suo scritto La solitudine del cittadino globale. In quegli anni le nuove tecnologie della comunicazione facevano il loro ingresso sulla scena e iniziavano a dischiudere la possibilità di nuovi e affascinanti modi di vivere la vita, le relazioni, conferendo maggior importanza al tempo che allo spazio, come se quest’ultimo fosse quasi irrilevante.
Si parlava allora di disembedding, di sradicamento come condizione di vita di molti, senza preoccuparsi troppo degli effetti, ma considerandola una condizione con cui fare i conti e cui doversi adeguare, quasi un dato di fatto. Dagli anni Novanta a oggi, la globalizzazione ha fatto passi da gigante, non si è fermata. Quali sono le conseguenze sulle persone, sui loro stili di vita, sui legami sociali? Questo non è un tema nuovo e da qualche anno a questa parte si è iniziato seriamente a studiare l’impatto della mondializzazione sulla società. Quella in cui viviamo è una società complessa, multi-etnica, multireligiosa, multi-culturale, globalizzata, in cui le persone sono interconnesse, grazie alla Rete e ai social network, con il resto del mondo – sono ricche di legami deboli, per dirla con il sociologo Mark Granovetter – e fanno fatica a essere connesse nella prossimità, fanno fatica ad abitare i luoghi. Ma le persone hanno bisogno anche dei luoghi, perché è qui che si costruiscono le relazioni comunitarie, i legami forti. Il problema allora non è tanto nel globale – che c’è ed è ben sviluppato – bensì nel locale, per troppi anni trascurato, quasi non fosse importante, la dimensione di chi resta, di chi è legato alle tradizioni, una specie di serie B, rispetto alla serie A dove invece gioca chi è mobile e innova.
Se guardiamo i luoghi ci rendiamo conto di quanto non siano più luoghi, almeno nell’accezione con cui l’antropologo Marc Augé li descriveva sempre negli anni Novanta. Per definizione, i luoghi sono gli spazi che noi abitiamo, che sono a noi familiari, in cui tessiamo relazioni di senso, con le persone compresenti nello spazio. È la nostra comunità, il nostro vicinato, in cui ci sentiamo accolti, riconosciuti dagli altri, anche protetti. Solitamente nei luoghi i legami sociali sono forti, le persone si fidano le une delle altre, sono pronte ad aiutarsi in caso di necessità. Ma la condizione di cittadino globale ci ha fatto progressivamente perdere interesse e di vista il locale. Chi sono i nostri vicini di casa? Chi abita nel nostro condominio? Chi vive nella nostra strada, nel nostro quartiere? Non siamo tenuti a saperlo, non ci è dato saperlo. Ecco allora che la mancata conoscenza reciproca alimenta la diffidenza, la distanza sociale e, in ultima istanza, la solitudine. Perché si può vivere vicini e sconnessi, vicini spazialmente agli altri ma isolati, in solitudine. Dobbiamo quindi fare alcune distinzioni importanti: 1) La condizione del vivere soli – peraltro sempre più diffusa nel nostro Paese – non è correlata necessariamente al sentimento di solitudine; 2) Si può vivere soli ma non isolati, non in solitudine. Queste premesse sono essenziali e lasciano ben sperare per la qualità della vita di chi abita le nostre città, in particolare quelle metropolitane.
È un dato di fatto, se guardiamo i censimenti degli ultimi 40 anni, che in Italia il numero delle persone sole è cresciuto inesorabilmente, vuoi perché la popolazione invecchia, si fanno meno figli, i legami di coppia sono più liquidi, esposti allo scioglimento – come direbbe il sociologo Bauman. Gli stili di vita sono sensibilmente cambiati, anche per via di quella globalizzazione/individualismo di cui si è detto. Nel 2011, in Italia, le famiglie unipersonali, ossia formate da una sola persona, erano il 31,15% del totale; nel 1971 erano il 12,9%. Da parte loro le famiglie numerose sono sempre meno, il 5,72% nel 2011. Le famiglie unipersonali sono formate in larga maggioranza da vedovi o più spesso vedove, ma anche da giovani trentenni e oltre che vivono soli per scelta di vita. Al fatto di vivere soli, una condizione che può esporre le persone a maggiore vulnerabilità, si associano alcune problematicità che possono favorire l’isolamento e il sentimento della solitudine, del sentirsi soli. I dati dell’Istat-Bes 2016 fotografano un’Italia in difficoltà da questo punto di vista: c’è una bassa fiducia negli altri, con un valore medio di 5,7 su una scala 0-10, sotto la media europea; una bassa soddisfazione per le relazioni personali, con solo il 22,5% delle persone che si dice moltocompletamente soddisfatto, contro una media Ue28 del 39,2%; una rete sociale su cui contare in caso di bisogno che appare più fragile, con l’85,6% degli italiani che può avvalersene rispetto a una media Ue28 del 93,3%.
Potremmo allora concludere che di per sé il vivere soli non è un problema se si è connessi agli altri, a partire dai propri vicini di casa. Forse prima ancora che su un Ministero della solitudine – come si è pensato di fare in Gran Bretagna – sarebbe importante puntare su un’alleanza tra cittadini e attori diversi, in quanto ciascuno, a diverso titolo e secondo la propria mission, può attivarsi per rendere abitabili e socievoli le città. Come ha affermato di recente l’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini, occorre lavorare tutti assieme per «un’arte del buon vicinato». Su questa linea esistono interessanti sperimentazioni in Italia. Una tra tutte, a costo zero, che si muove nella logica della gratuità, della socialità e dell’inclusione sociale, sono le Social street. Gruppi di vicini che hanno riscoperto l’importanza di vivere connessi – online e offline – come antidoto alla solitudine. È un fenomeno made in Italy, che in quattro anni ha visto attivare ben 428 esperienze, di cui attualmente 8 all’estero.
Una sorta di 'modello', esportabile e adottabile da tutti coloro che sentono la necessità di un cambiamento, di una inversione di tendenza nel modo di vivere e sono disponibili ad attivarsi, a impegnarsi in prima persona, assieme agli altri. Si tratta di una idea semplice, tanto semplice da risultare efficace, perché i vicini di casa tornano a frequentarsi, ad essere collaborativi, a scambiarsi favori, restando quello che sono: un gruppo informale di persone che abitano nello stesso luogo. In questo caso la tecnologia – non una piattaforma dedicata, ma Facebook, il social network più diffuso e utilizzato al mondo – svolge un ruolo 'virtuoso', funge da facilitatore di relazioni che non si risolvono in Rete, ma aspirano sempre all’incontro reale. Quello che serve c’è già, che ciascuno faccia la sua parte, nell’ottica dell’alleanza.
* docente di Sociologia dei fenomeni collettivi all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, coordinatrice dell’Osservatorio sulle Social Street, autrice di «Vicini e connessi» (Fondazione Feltrinelli, il testo è scaricabile gratuitamente qui: goo.gl/Zr78dB).