Caro direttore,
continua a suscitare attenzione e per molti aspetti ammirazione la multiforme attività di Matteo Renzi sia in patria sia nel vasto mondo: non si ricordano molti esempi di tale onnipresenza e onnicompetenza, tranne forse Amintore Fanfani, anch’egli toscano, segretario della Dc e presidente del Consiglio. Matteo Renzi, novello Adamo verrebbe da dire, con una vicenda paragonabile a quella biblica: creato innocente, decaduto per cause ben note con conseguenze che coinvolgono l’intera umanità, Matteo Renzi è anch’egli soggetto alle conseguenze di un peccato originale che rende ambigue e discutibili certe sue iniziative e decisioni: il suo peccato consiste nell’aver risposto alle lusinghe di Berlusconi e di averlo reinserito nell’attività politica, cercando la collaborazione di un personaggio che meritava il silenzio e l’oblio (se la legge è uguale per tutti). In questo modo, come possono convivere etica e politica? E quale esempio si dà ai giovani e ai cittadini? Renzi non accetta i compromessi: ma non è questo il compromesso nella sua attuazione peggiore? Le riforme, per essere accettabili e durature, richiedono pazienza e approfondimenti: lasciamo ai dittatori i colpi di genio e le decisioni irrevocabili: la storia ne conosce parecchi, e con risultati ben noti. Cordialmente.
Antonio Prezioso, Padova
Alla base del suo punto di vista, caro signor Prezioso, ci sono ragioni serie. Ma ce ne sono di altrettanto serie anche alla base della scelta dell’attuale premier e segretario del Pd, Matteo Renzi, di non procedere a tentativi di riforma “in solitudine”. Di pretese così presuntuose ne abbiamo visti altre: deludenti o miseramente fallite. Quali? Prima di tutto, la riforma del Titolo V della Costituzione, cioè i maggiori poteri assegnati alle Regioni, condotta di forza (e per un pugno di voti) dal centrosinistra nel 2001 e che, visti i risultati, quasi nessuno osa più difendere e, poi, la “grande riforma” all’insegna della “devolution” e del “premierato forte” che il centrodestra impose e che il referendum popolare cancellò nel 2006. Storia (e ragione) dicono che le riforme si fanno insieme, più insieme che si può. Questo naturalmente non garantisce che non si facciano errori, e i lettori sanno che, in questi mesi, abbiamo indicato errori per noi importanti sia nel cosiddetto “Italicum” (il fatto che si mantengano le liste bloccate e non si restituisca agli elettori la piena possibilità di scegliere gli eletti) sia nella riforma dell’attuale bicameralismo perfetto (a proposito delle materie che sarebbe bene mantenere nella competenza di Camera e Senato). Ma la via di un’ampia intesa istituzionale è l’unica via sensata, non a caso indicata più volte e quasi pretesa – all’atto della sua “forzata” rielezione al Colle – dal presidente Napolitano. E se una delle due opposizioni maggiori – quel Movimento 5 Stelle che nel 2013 era diventato il primo partito, cosa che non è più, ma che dispone di grandi gruppi parlamentari – si chiama fuori, al Pd di Renzi non resta che puntare – oltre che all’accordo con gli alleati di governo – sull’intesa con il partito ancora legittimamente guidato da Silvio Berlusconi, anche oggi che non siede più in Parlamento a seguito della definitiva sentenza di condanna che ha subìto. Importante, dal punto di vista dell’interesse generale, è che tutto avvenga non solo con sensato equilibrio, ma con piena trasparenza. Che fa rima, come lei dice, con pazienza. La pazienza che serve per far finalmente procedere nel nostro Paese un lucido ed efficace processo riformatore (delle istituzioni, della giustizia, del lavoro, del fisco…) che riavvicini Stato e cittadini. E la pazienza che tanti italiani hanno perso (con conseguente discredito dei vecchi partiti e dei loro capi) nella vana attesa della conclusione di una transizione cominciata più di vent’anni fa e nel crescente disagio per i giochi d’interesse e per i mediocri obiettivi (e spettacoli) offerti da una classe dirigente di cui l’ex Cavaliere è stato esponente di spicco, ma non solitario.
Quanto ai “peccati” nella gestione di un potere o di una responsabilità anche piccola – in tanti, chi più chi meno, ne abbiamo – credo che tra i più insidiosi per un uomo di governo ci sia quello di non sopportare le critiche, neanche le più costruttive. In questo, i nuovi leader – parecchi, Renzi compreso – hanno qualcosa da imparare dagli uomini e dalle donne – Amintore Fanfani compreso – che fondarono sulle macerie del fascismo e della guerra la Repubblica democratica, quella che oggi chiamiamo Prima Repubblica. L’organizzazione della prossima (chissà se la chiameremo Terza Repubblica o in altro modo) potrà e dovrà essere in parte diversa da quelle che abbiamo conosciuto fin qui, ma non le nascondo, caro amico lettore, che mi piacerebbe se lo stile fosse quello di allora. Disse proprio Fanfani di Alcide De Gasperi: «Fu uno dei pochissimi uomini da cui non udii mai un giudizio irrispettoso verso chicchessia». E disse di sé: «Non dimentico chi mi ha ostacolato e offeso, ma non ho rancori e non cerco rivalse». Sono altre le frasi suggestive e lungimiranti che in genere si tende a citare, ma ne scelgo due “minori” e che a qualcuno, forse, sembreranno marginali, perché a mio parere marginali non sono affatto. Dicono dell’uno, dell’altro e di una concezione delle relazioni umane e dell’esercizio del potere che li rese statisti. Cioè costruttori e ricostruttori, pazienti e decisi.