Il villaggio è sepolto nella neve, porte sbarrate, strade deserte. Devono aver spalato da poco, perché la neve sta ammucchiata ai lati della via e contro le porte dei garage. In primo piano, in fila indiana, tre lupi vanno in là, voltandoci le spalle. Magri, smunti. Devono avere una fame da delirio. Per questo sono venuti fin qui, tra gli umani, che sono per loro gli esseri più temibili della Terra. Sembra che dicano: «Moriamo di fame, dateci da mangiare». È un’apparizione inattesa, la proposta di un accordo: «La nemica di tutti è la neve, smettiamo la guerra tra noi». È una foto a colori, ieri sulle prime pagine di alcuni giornali italiani. La guardo incantato. E mi vengono in mente le infinite narrazioni degli eroi che, in tutte le letterature, combattono a morte uno contro l’altro, ma in punto di morte invocano la fine dell’odio e la riconciliazione. Fin nel fondamento della nostra civiltà letteraria, l’
Iliade, c’è già l’immagine dei lupi come nemici "eterni", con i quali non è possibile nessuna pace. Ettore ha paura di morire, si sente braccato dai nemici e dagli dèi, scappa e fa tre volte il giro delle mura ma poi si ferma, volta la faccia ad Achille e lo supplica: poiché uno di noi due cadrà, l’altro prometta di renderne il cadavere ai familiari, che lo onorino. Ma l’altro risponde proprio col paragone dei lupi, che sono «nemici eterni», non concedono e non chiedono «nessuna pace». Sbagliava, sui lupi e su di sé. Sui lupi: eccoli qui, con la coda fra le gambe, avanzare a lingua in fuori per questo villaggio dell’Abruzzo, affamati e scheletriti, sperando in qualche avanzo dimenticato dagli umani. Su di sé: cederà a quella richiesta del nemico quando riceverà la visita del padre di lui, perché nel padre del nemico vedrà il proprio padre, e dunque la pietà che lo invade è nei fatti una pietà per se stesso. C’è sempre questo lutto, questa disperazione per la morte del fratello o dell’amico nei grandi testi che stanno alle origini delle letterature. Anche nella Bibbia. Dove non c’è costernazione per la morte del fratello o dell’amico, ivi c’è colpa. È il caso di Caino. L’espressione
homo homini lupus (l’uomo che si fa lupo all’altro uomo) indica un’avversione primordiale ed eterna, immodificabile. Questa foto a colori dei tre lupi che avanzano cauti e a muso basso davanti alle finestre delle abitazioni umane, la smentisce. C’è una condizione in cui nel lupo prevale l’istinto di salvezza su quello dell’aggressione: è il freddo, la neve, la fame. Vale anche per le volpi. Le volpi rubano nei villaggi, ma di notte, nascoste. Adesso che c’è la neve puoi vederne qualcuna di giorno sfilare tra le case, e dietro di lei i suoi piccoli: hanno fame, e la fame è più forte della paura. La fame urgente, o mangi o muori. La sensazione della fine di tutto, e quindi della propria fine. Questi animali non fanno paura, perché hanno paura. La paura li rende buoni. Vale anche per gli uomini. I momenti della storia segnati dalla massima crudeltà, uomini lupi agli uomini, sono stati possibili perché chi la infliggeva non s’identificava con le vittime, ma si separava. Quei momenti avevano a monte la cancellazione del concetto di umanità, di far parte dell’umanità. Poiché abbiamo citato opere antichissime, citiamone una recentissima: è appena passato il Giorno della Memoria, una tv ha mandato in onda un film assai bello e profondo di un brillante regista,
L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti. Il film culmina con una strage nazista. A strage in corso, un ufficiale nazista dà i colpi di grazia con la sua pistola, ma si ferma davanti a una donna e cerca di salvarla, dicendo a un camerata: «Somiglia a mia moglie». Perché gli uomini-lupi la smettano bisogna che vedano nelle vittime le mogli, i fratelli, i figli. E nelle sofferenze delle vittime le proprie sofferenze. Allora diventano mansueti. Come questi lupi, che s’aggirano tra le case degli umani cercando qualcosa da mangiare.