Caro direttore,sono veramente meravigliato per le affermazioni del monsignore polacco: ma quando ha deciso di diventare sacerdote non sapeva che cosa voleva dire “celibato”? Strada facendo, nonostante i grandi studi, forse se l’è dimenticato come ha dimenticato tante altre cose. Un cordiale saluto.Carlo Luigi Donati - S. Giorgio di Piano (Bo)
Gentile direttore,i preti cattolici di rito latino non possono essere sposati né convivere con una donna. E con un uomo? Un prete gay che ricopre alti incarichi in Vaticano parla di «omofobia paranoica» di fronte alla minaccia di venire allontanato da tali incarichi dopo che ha dichiarato di avere un compagno; perché «l’amore omosessuale è un amore familiare, che ha bisogno di una famiglia». Se lo crede davvero, non vedo perché pretenda di avere un trattamento di favore rispetto ai preti che scelgono, invece, un amore eterosessuale. Lui, poi, ha fatto questa dichiarazione alla vigilia del Sinodo, per renderla più rumorosa (“eclatante”, direste voi giornalisti), e si affretta ad aggiungere di aver «pronto per la stampa, in italiano e in polacco, un libro». La bella uscita gli procurerà certamente un buon editore e un certo pubblico anche di altre lingue, ma forse non sarà di utilità ai gay che “cercano Dio” da cattolici e vorrebbero essere accettati per quello che sono senza tanta pubblicità.Lodovico Cardellino
Nella Chiesa ho imparato (e non finisco mai di sentirmi inadeguato) un amore che si fa rispetto per tutti gli esseri umani, quale che sia la loro condizione. Un rispetto senza eccezioni, davvero per tutti. Dal figlio appena concepito al disabile, dal malato al carcerato, dallo straniero all’omosessuale. E quando dico “Chiesa” penso non solo alle strutture, pure fondamentali per una comunità di credenti dalla storia millenaria e un cuore intatto di tramandata verità, ma soprattutto alle persone, ai testimoni e, dunque, ai maestri che anch’io ho avuto. Penso a una comunità vasta, nella quale sono stato accolto e di cui mi sento parte grazie alla mia Chiesa “domestica” (cioè la famiglia cristiana in cui sono nato e cresciuto e quella che contribuisco a costruire da sposo e da padre), grazie a laici come me e, non certo per ultimo, grazie al Papa e alle persone consacrate e (vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi) normalmente eppure straordinariamente fedeli al proprio ministero che ho incontrato e incontro nelle diverse città (e parrocchie) dove ho vissuto e vivo. Ho pensato a loro davanti all’esplosione mediatica del “caso Charamsa”. E come il signor De Giuseppe, che ringrazio per la sua bella e molto “francescana” testimonianza, ho pensato soprattutto a mia madre. Era maestra elementare e uno dei ricordi più belli che ho di lei, e del suo lavoro, è stato consegnato ai miei fratelli e a me da un suo antico alunno omosessuale, che lei capì, accompagnò e difese in una fase assai complicata e dura della vita. Non mi sognerei neanche di definire mia mamma gay friendly, patente dell’adesione politicamente corretta a tutte le rivendicazione dell’associazionismo Lgbti. Penso che sia stata semplicemente una buona cristiana e una donna capace di un concreto sguardo umano, materno e solidale, senza esclusioni, vedendo l’ingiustizia e affrontandola. Quello che il Catechismo cattolico insegna e raccomanda quando parla di accoglienza delle persone omosessuali con «rispetto», «delicatezza» e «compassione», cioè con capacità di “sentire” la situazione dell’altro. Ascolto papa Francesco e sento chiaramente che alla base c’è la stessa visione e la stessa comprensione del Vangelo, offerta con speciale e immediata sapienza. Poi, come in questi giorni, mi tocca ascoltare pure un sacerdote (protagonista di quella che potremmo definire una carriera ecclesiastica di successo), che definisce la Chiesa – che è sua quanto vostra e mia – «omofobica», e lo fa rivelando non solo di essere omosessuale (cosa che non escluderebbe una condotta di vita da prete esemplare e santo), ma anche di avere da diverso tempo un compagno di vita. Tutto questo con la tempistica e la regia mediatica che il signor Cardellino coglie nella sua lettera. So bene che la Chiesa ha formulato, nel tempo e sino a oggi, una proposta esigente per gli omosessuali: la castità. Ma so anche che questa stessa proposta, a prescindere dalle tendenze sessuali manifeste o meno del candidato al sacerdozio, è la consapevole libera scelta di un prete di rito latino. Per questo penso che questa storia non sia affatto esemplare e non possa, nonostante la scoperta intenzione di farlo, influire sul Sinodo sulla famiglia. E questo perché tutto riguarda soprattutto quel sacerdote, di cui mi hanno scosso sia le lacrime sia l’organizzazione molto professionale della sua (ipse dixit) «uscita dall’armadio». Un prete che ha scelto di “denunciare” l’impegno che aveva preso – liberamente, ripeto, e con certa scienza visto i suoi titoli di teologo – con la Chiesa e con Dio, che è padre misericordioso e non fa sofismi.
Concludo, soffermandomi su una frase che più mi ha colpito tra le molte riversate dal monsignore polacco sui giornali e in tv: quella in cui definisce la condizione della persona consacrata una «disumana» rinuncia all’amore. Ha proprio ragione il signor Donati: sembra davvero che il colto teologo abbia dimenticato molte cose fondamentali per chi segue Gesù, se – mettendo se stesso in primo piano – arriva a offendere con leggerezza l’amore che c’è e che si trasmette, oggi come ieri, attraverso la vita di tantissimi preti, religiose e religiose. La vita di madre Teresa di Calcutta è stata disumana? E quella di don Bosco? Don Pino Puglisi, martire della mafia, o il parroco che serve da trent’anni le comunità di una valle alpina sono o non sono uomini pieni? E le mie amiche piccole sorelle che “sposano” Cristo ogni giorno nei poverissimi di Ceuta, enclave spagnola ed europea in terra d’Africa, sono forse donne a metà? Saper essere piccoli, fedeli e accoglienti – qualunque cosa facciamo e viviamo – non è da tutti. Per quanto mi riguarda so a chi ispirarmi e quanto devo “lavorare” per continuare a provarci.