Caro Avvenire,
un giovane operaio e due netturbini a Settimo Torinese una mattina trovano per strada un fagotto. Guardano increduli: un neonato, si muove. Uno dei netturbini, Saverio C., prova a coprirlo col suo giubbotto, ma si rende conto che non è adatto. Si sbraccia, urla. Dalle finestre gli lanciano coperte e tovaglie. Cerca di scaldarlo. Si dispera. Aspetta fino all’arrivo dell’ambulanza e dei carabinieri. Dice che l’avrebbe adottato volentieri: un posto in più per un angelo a casa di un lavoratore c’è sempre. Il piccolo non ce l’ha fatta. Rimangono il dolore per la perdita del bimbo, lo sgomento per la povera donna che ignorava che si può scegliere di non essere madre senza uccidere il figlio. E, per me, anche l’orgoglio di essere stato direttore del netturbino Saverio.
Teresio Asola
Ci sono due città in questa lettera. La prima è l’hinterland torinese solitario e allucinato di una donna sposata e già madre, che forse non vuole ammettere di essere incinta, oppure autenticamente, all’interno di una forma grave di alienazione, non lo confessa nemmeno a se stessa. La donna è di costituzione molto robusta, la gravidanza non è così evidente. O forse bisognerebbe osservare con più attenzione quella cameriera , moglie di un agente immobiliare, una coppia all’apparenza come tante in una periferia laboriosa e frettolosa. La seconda città è quella che un mattino, sull’asfalto di una via stretta, scopre un neonato, seminudo, ferito, ma che ancora respira. A scorgerlo è un giovane operaio che va a lavorare e che, atterrito, chiama due netturbini. Immaginiamoci il colpo al cuore di un netturbino che si ritrova con quel fagotto fra le braccia, palpitante, mentre accanto il grosso mezzo che raccoglie i rifiuti romba, fermo, col motore acceso. Il netturbino Saverio si riprende per primo dallo sbalordimento: fa freddo all’alba a maggio, il piccolo è gelato, l’uomo lo avvolge nel giubbotto, poi urla verso le finestre delle case. Cosa sarà tanto chiasso, si chiede la gente ancora in pigiama, e si affaccia e vede quell’omone con qualcosa di molto piccolo in braccio. Non può essere, non è possibile, pensano, ma gli lanciano coperte per avvolgere quel figlio di nessuno, che in un attimo già è di tutti. Perché è corale, nel sentire un vagire soffocato, sentirsi dentro quello slancio di padri e di madri, quell’insostenibile urgenza di proteggere un neonato abbandonato. L’ambulanza arriva immediatamente, che forse si sia ancora in tempo? Riparte a sirene spiegate, cento paia di occhi la seguono nell’allontanarsi. Il netturbino Saverio ora è a mani vuote: l’avrei portato a casa volentieri io, quel bambino, dice soltanto. L’avrebbero portato a casa in molti, al caldo, quell’angelo caduto una notte dal cielo sopra Torino. Ma non c’è niente da fare. Il bambino muore. Forse, su quel marciapiede c’è arrivato da una finestra. Lanciato. E anche la madre è fra quelli che si sono affacciati, la mattina. Muta, chiusa in se stessa, nella sua malattia, e nel suo atroce segreto. Resta, oltre la macchia di sangue sull’asfalto, un uomo grande e grosso cui pare forse ancora di sentire fra le braccia il peso lieve e il tepore di quel piccolo corpo. Come avrebbe voluto portarlo a casa, dai suoi. Un posto, lo si trovava. Resta un collega del netturbino Saverio, che commosso dice: quell’uomo lo conosco, è amico mio.