giovedì 26 agosto 2010
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Caro direttore, entro in punta di piedi nel dibattito scaturito dall’articolo dell’amico professor Vittorio Possenti a proposito delle preferenze elettorali. Mi sembra che sull’argomento aleggi una certa retorica. La domanda cruda è: quali sono gli elementi di cui l’elettore dispone per scegliere un candidato? Lo sceglie perché è un amico, perché ha apprezzato un suo intervento televisivo, perché gliene hanno parlato bene? La preferenza avrebbe senso compiuto in un sistema elettorale rigorosamente uninominale, in cui ogni candidato si presenti in un solo collegio. In tal caso, la prossimità territoriale consentirebbe all’elettore una conoscenza ravvicinata del candidato. Ma siamo ben lontani da un sistema elettorale di questo genere.Oggi come oggi (e, probabilmente, anche domani) il consenso popolare è mediato dai partiti, per cui i programmi elettorali dovrebbero valere più delle persone scelte per realizzarli. Non che le persone non siano importanti, ma, a mio avviso, lo sono meno dei programmi, che dovrebbero essere concreti, sintetici, verificabili, e non sesquipedali elenchi di desideri. Nel nostro sistema, se i programmi sono elaborati dai partiti (o dalle coalizioni di partiti), tanto vale che siano i partiti stessi a scegliere le persone che dovrebbero realizzarli. Io posso scegliere un candidato perché è mio amico, perché ha una buona fama, ma come posso sapere se sarà anche un ottimo legislatore o un efficace uomo di governo? Essere un galantuomo non basta, anche se è certamente un requisito importante.Ma c’è un altro argomento che mi sembra da non sottovalutare. Quando, in passato, c’erano le preferenza, si è verificata, soprattutto – bisogna pur dirlo – nelle regioni meridionali, una caccia al voto con metodi non proprio limpidi (il mitico pacco di pasta del comandante Lauro, per fare un esempio storico), e con l’appoggio di organizzazioni collaterali che, nonostante gli indubbi successi degli ultimissimi anni nella lotta alla mafia, sono ancora piuttosto attive. C’è il rischio che riceva più voti di preferenza il candidato che ha più soldi, o il più spregiudicato. Senza dimenticare che il progressivo scadimento della nostra classe politica è cominciato fin dai tempi del voto preferenziato. Ciò dovrebbe accrescere la pensosità nel pigiare il pedale sulle preferenze elettorali.

Cesare Cavalleri

Siamo d’accordo su molte e davvero sostanziali cose, caro Cavalleri, ma – per quel che vale – su questa no. Ho imparato che non esiste un sistema elettorale, neanche quello basato sui collegi uninominali, in concreto «migliore» (ogni strumento può essere, infatti, usato bene o male e qui in Italia l’uninominale è stato usato piuttosto male: anche perché non lo si è mai accompagnato con le primarie di collegio, come ho ricordato appena due giorni fa su questa stessa pagina in dialogo con Stefano Ceccanti). Ho poi potuto verificare che è un guaio quando le classi dirigenti (e i parlamentari della Repubblica, rappresentanti della volontà popolare, sono parte essenziale della nostra classe dirigente) si producono e auto-riproducono esclusivamente per cooptazione (chi è dentro, e comanda, sceglie chi, come e quando far entrare a Palazzo). Detto questo, pur coltivando – come te – ideali e qualche illusione, vivo anch’io a occhi aperti. So, insomma, come va il mondo, e non mi stupisco di certo delle logiche della politica (e della militanza politica di vertice) come mi rendo conto dei rischi che tu lucidamente ricordi. Ma so anche come si dovrebbe andare in Parlamento: prima di tutto col voto della propria gente. E, soprattutto, so che le idee (e i programmi elettorali sono idee) camminano sempre con le gambe degli uomini. Non è, e non può diventare, soltanto un modo di dire. Un caro saluto. (m.t.)
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