Caro direttore,
è vero che nelle temperie di questi anni le esperienze più incisive del cattolicesimo 'nel mondo' – escludendo, si capisce, l’ambito religioso in sé – sono legate al sociale, all’economico e per certi aspetti al culturale. Attorno al politico (ammesso che esso meriti ancora la piazza centrale) si anima una certa vitalità che non si riconduce automaticamente a esso, magari per una sorta di prudenza o forse di convenienza. Certamente non mancano 'temi cattolici' su cui noi cattolici ci esprimiamo quasi in automatico e quasi con la stessa opinione, dalla famiglia al fine vita, dalla scuola alla povertà: ma su questi argomenti la posizione è consolidata e il ruolo dello Stato – dal nostro punto di vista – abbastanza chiaro. Ma qui, nelle riflessioni su popolarismo e cattolicesimo sociale pubblicate finora, mi pare s’intenda qualcosa di più.
E credo che questo 'di più' si declini in due grandi questioni, ovvero nel mettere a fuoco un’idea di Stato capace di rispondere ai temi e ai tempi che stiamo vivendo e nel rigenerare una classe dirigente politica a sua volta capace di governare il cambiamento. Le due cose sembrano associate, almeno storicamente. Quando una visione di Stato era chiara, si materializzava in tutta una meccanica di strumenti e di processi che l’onorevole Franco Monaco ('Avvenire', 28 luglio 2017) descrive: un modello di relazioni tra forme sociali e partiti politici che ha generato personalità politiche di grande spessore, come appunto Giovanni Bianchi.
Ma senza tutto questo contesto, è ancora possibile pensare a una rappresentanza politica del cattolicesimo? Mentre lo scrivo, mi rendo conto che è un po’ come chiedersi perché in città non ci sono più le lucciole. Mancano perché l’habitat non ne permette più la presenza, non per mancanza di qualche coraggio politico, tenuto conto che – come tu, direttore, hai scritto – di coraggio non ne è mancato nella chiarezza di alcune scelte valoriali. C’è un vuoto politico, che richiede luoghi e tempi di elaborazione, di discernimento, di costruzione di processi, anche non convenzionali: in fondo Camaldoli cos’era, negli anni 40 del Novecentp? La risposta odierna è Maastricht? Direi di no. Pertanto occorre anche una visione originale, perché attualmente i cattolici votano ormai come tutti gli altri cittadini.
La differenza cristiana non sta nel voto. Ma occorre anche convincersi che sono da ricostruire dialoghi, ponti, reti perché questa forma democratica non può fare a meno dei corpi intermedi, i quali non hanno un valore esclusivamente sociale, settoriale. Se la politica non riconosce piena cittadinanza a questi mondi e non capisce che essi sono essenziali non solo per rispondere a dei bisogni sociali, ma per costruire la democrazia, allora credo che alcune fatiche continueranno. Più che occupare spazi, sono questi i processi da avviare.
* Presidente nazionale delle Acli