Ansa
Tra i referendum promossi o bocciati dalla Corte costituzionale nei giorni scorsi spiccava un’assenza: quella del quesito per cancellare il Reddito di cittadinanza. Matteo Renzi l’estate scorsa l’aveva annunciato con la consueta sicurezza, addirittura sventolando il testo della domanda di fronte ai ragazzi della scuola di formazione politica di Italia Viva. Raccogliendo perfino l’adesione dell’altro Matteo, quel Salvini che il Reddito di cittadinanza l’aveva "co-firmato" da ministro dell’Interno. Poi la gran baldanza è progressivamente scemata mentre sul sito di Iv le firme a sostegno (non certificate) arrivavano a malapena a 5mila, meno della metà dell’obiettivo previsto. Tanto che oggi la petizione non compare neppure più in home page, sostituita dai 671 consensi per riqualificare l’ex deposito Atac di piazza Ragusa a Roma.
Un flop che non varrebbe la pena di sottolineare, se non fosse purtroppo emblematico dell’incapacità di buona parte delle forze politiche di analizzare i problemi reali del Reddito di cittadinanza per quel che sono, dibatterne concretamente e mettere quindi in atto gli aggiustamenti effettivamente necessari. Così come evidenziato dal rapporto sui quasi tre anni del Rdc, diffuso ieri dall’Inps. Dal quale (ri)emergono alcuni deficit già sottolineati da Caritas, Alleanza contro la povertà, Istat e apposita commissione ministeriale: lo squilibrio nella distribuzione territoriale, la non completa corrispondenza tra poveri assoluti e beneficiari del sussidio, l’esclusione di troppi stranieri, la penalizzazione delle famiglie con figli e il labile legame con le politiche attive del lavoro. Su quest’ultimo tema, l’Inps ha nuovamente messo in evidenza come «su 100 soggetti beneficiari del Rdc, quelli "teoricamente occupabili" sono poco meno di 60. Di questi: 15 non sono mai stati occupati, 25 lo sono stati in passato, e meno di 20 sono "pronti al lavoro"», con tassi di scolarizzazione che nel 70% dei casi non vanno oltre la terza media. Inoltre, a proposito della distribuzione dei beneficiari per due terzi residenti al Sud e nelle Isole, ancora l’Inps sottolinea che «lo squilibrio è anche spiegato da indicatori di disagio economico locale (come l’alto tasso di disoccupazione, il basso livello di istruzione, la mancanza di servizi adeguati)». E che il Rdc «appare essere un sostegno non solo per i nuclei familiari, ma anche per alcuni precisi contesti locali con indicatori di disagio economico particolarmente accentuati». Insomma, un sostegno necessario per i poveri e perfino per alcuni territori altrimenti abbandonati a se stessi.
Analisi di cui tener conto per tarare meglio da un lato le azioni da mettere in campo sul fronte del lavoro, dall’altro per una possibile differenziazione degli importi dell’assegno in base al carovita nei diversi contesti territoriali. Soprattutto, sono questioni complesse che non possono essere liquidate con slogan facili come: «Non si trovano camerieri perché i giovani restano sul divano a prendere il sussidio», ripetuti da diversi esponenti politici nei mesi scorsi. O, peggio, agitare davanti all’opinione pubblica il drappo rosso delle truffe. Salvo accorgersi che le malefatte di organizzazioni criminali e singoli truffatori sul Reddito di cittadinanza sono ammontate a 174 milioni di euro (comunque troppi!), mentre quelle delle mafie, di imprenditori e professionisti disonesti sui bonus edilizi sono stimate in 4,4 miliardi di euro, 25 volte tanto.
Nei mesi scorsi si è persa l’occasione di correggere come necessario il Rdc, strumento fondamentale di contrasto alla povertà. Per il terzo anniversario della legge – approvata a fine marzo e operativa dal 1° aprile – occorre evitare lo stesso errore. Che penalizza anzitutto chi ha davvero bisogno.