È oramai opinione generale che l’amministrazione della giustizia non funzioni come dovrebbe. L’inefficienza ed i tempi lunghi per giungere ad una sentenza definitiva, e più ancora per ottenerne l’esecuzione, oltre che violare il diritto ad agire in giudizio, sono un costo aggiuntivo che pesa sulla produzione e scoraggia gli investimenti. Ancor più sconcerta la personalizzazione e l’enfasi di iniziative penali ricche di annunci e di effetti immediati, che si producono al di fuori del processo, ma povere di risultati alla verifica nel processo. Inoltre il principio di buon andamento, che dovrebbe riguardare anche l’organizzazione giudiziaria, non ne caratterizza le strutture ed il funzionamento degli apparati. Questa situazione negativa incide sui cittadini e sulla funzionalità delle istituzioni, ma mortifica anche il gran numero di magistrati impegnati quotidianamente a rendere giustizia senza ricercare notorietà. Il grado di inefficienza nell’ambito giudiziario forse non è diverso da quello che affligge altre funzioni ed amministrazioni pubbliche. Ma è più avvertito dai cittadini. La giurisdizione incide direttamente su beni ed interessi essenziali: la libertà e dignità personale, la punizione dei reati, la garanzia che i propri diritti siano assistiti dall’effettiva protezione offerta da un giudizio tempestivo, reso in conformità alla legge da un giudice competente, indipendente ed imparziale. La riforma della giustizia è da molto tempo nell’agenda politica. Può toccare i rami alti, quelli di maggiore impatto politico e nella comunicazione, ma di effetto indiretto e differito sull’efficienza: la composizione del Consiglio superiore della magistratura, l’ordinamento giudiziario e la più netta separazione tra magistrati del pubblico ministero e giudici. Può toccare i rami bassi, che richiedono analisi ed interventi più complessi e di minore rilievo comunicativo: l’organizzazione e la funzionalità degli uffici, la produttività dei magistrati e degli apparati, la valutazione della loro professionalità, la razionalizzazione delle procedure ed il miglior uso delle risorse, i rapporti con l’avvocatura e le altre professioni che mediano tra cittadino e amministrazione della giustizia. Se l’attenzione si concentra sul Consiglio superiore della magistratura, deve essere chiaro l’obiettivo: l’indipendenza della magistratura, per assicurare una garanzia istituzionale dell’indipendenza dei giudici e del pubblico ministero. Questo obiettivo è incompatibile con qualsiasi formula di governo della magistratura. Sia di un governo politico della magistratura, mediato dalla prevalenza o dal dominio dei componenti del Consiglio di nomina politica. Sia di un governo autonomo o autogoverno della magistratura, secondo formule che si sono affermate sino ad affidare nel tempo al Consiglio anche una sorta di rappresentanza politica della magistratura. Un ritorno del Consiglio, forte ed autorevole, alle funzioni di garanzia istituzionale può seguire sia i percorsi della legge ordinaria, partendo da una incisiva riforma del sistema elettorale che tenga le correnti fuori dal circuito istituzionale, lasciandole alle dinamiche interne dell’Associazione magistrati, sia i percorsi della revisione costituzionale. In quest’ultima prospettiva criteri di composizione analoghi a quelli previsti per la Corte costituzionale, e quindi la nomina di una parte dei componenti ad opera del Presidente della Repubblica, sono contenuti già in vecchie e dimenticate proposte. I due percorsi non si escludono reciprocamente, ma neppure si cumulano necessariamente. Si può dunque discutere per operare una ragionevole scelta politica, senza che si configuri o si sospetti un attentato all’indipendenza della magistratura.