Un gran magistrato ragiona in modo amaramente paradossale su qualcosa che continua ad avvenire dentro il discorso pubblico, negli spot e nella vita quotidiana. E mi spinge a rifare un rapido punto sulla «guerra contro la solidarietà»
Gentile direttore,
mi verrebbe da partire da una riscrittura di Primo Levi: «Se questo è un animale». Comincio con una citazione di William Shakespeare: «Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Non sente anche lui le ferite? Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato dalle medicine, scaldato e gelato anche lui dall'estate e dall'inverno come un cristiano? Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? ». (“Il mercante di Venezia Atto III, Scena I). I fatti parlano. L’essere umano è innanzi tutto un animale; ancorché sia l’unico che sa di essere destinato alla morte (M. Heidegger) e che quindi, ponendosi il problema della propria essenza ed esistenza, da sempre si domanda con angoscia che cosa possa sapere, che cosa debba fare e che cosa gli sia dato sperare (I. Kant). « Abbandonarli non è un buon rimedio»: è il laico spot pubblicitario che, facendo appello al necessario rispetto per qualunque essere vivente, invita sui media a non abbandonare gli animali domestici (in inglese, più sinteticamente, pet), specialmente durante le vacanze estive. D’altronde, intorno ai prodotti per l’alimentazione e l’igiene di tali animali ruota un enorme giro di affari e nessuno (nemmeno gli Italiani privi di occupazione o di casa) mai ha accusato di “buonismo” gli acquirenti che consentono alle pet companies di lucrare grandi profitti. Sappiamo che da anni il Canale di Sicilia ha inghiottito migliaia di emigranti, che avevano pagati prezzi enormi per azzardare la speranza di non morire durante la traversata. Tutto lascia pensare che in numero assai maggiore di quelli censiti siano coloro che abbiano effettivamente perduto la «terribile scommessa». Nell’oblio della storia – dopo l’emigrazione di dieci milioni d’italiani, nel 1911 il governo Giolitti intraprese la conquista della Libia proprio per assicurare alla poverissima Italia uno «spazio vitale» – molti giudicano “buonisti” coloro che si ostinano a proclamare che « Respingere gli immigrati è un atto di guerra». Orbene, il ragionato compendio di tali fatti giustifica forse un suggerimento conclusivo, tanto cinico quanto realistico. Se una parte dell’opinione pubblica dimostra maggiore affezione per gli animali (per l’appunto) d’affezione, proprio di essi i migranti devono farsi scudo per disarmare i “cattivisti”. Perciò i migranti badino bene di riempire i loro malconci barconi con graziosi barboncini, azzimati chihuahua e preziosi (gatti) persiani, nella speranza che, per un verso, s’interessino della loro sorte le grandi multinazionali del pet food e che, per altro verso, i soccorritori non si limitino a salvare dagli avidi flutti soltanto gli animali (quelli diversi dagli uomini)!
Rosario Russo magistrato, già sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione
La sua provocazione, gentile dottor Russo, colpisce e lascia il segno. E non solo per l’eleganza e l’amara ironia con cui la conduce. E nemmeno perché aver cura dei nostri amici animali sia sbagliato o addirittura esecrabile, come lei si guarda bene dal dire, ma più di qualcuno pensa, scrive e a volte grida. Nessuna affezione e nessuna proporzionata cura (sottolineo l’aggettivo: proporzionata) è eccessiva o scandalosa in un mondo assetato di rispetto, di equilibrio, di saggia custodia dell’essenziale, che non è solo ciò che ci nutre e alimenta il nostro ben-essere, ma è ciò che ci porta direbbe un maestro come Stefano Zamagni all’esser-bene, e che sta al cuore delle relazioni che realizzano una condizione di ben-vivere: con gli altri esseri umani, con la nostra storia, con l’ambiente di cui siamo parte e con ogni altra forma di vita. Detto questo, però, lei ha totalmente ragione. Nel discorso pubblico – istituzionale e politico, pubblicitario e mediatico – è più facile, da diversi anni, che si moltiplichino scelte e discorsi teneri e accoglienti per quelli che (non solo) lei chiama «animali d’affezione» e, invece, si armi (il verbo pare ormai inevitabile) una disaffezione eccitata e respingente per gli esseri umani poveri o comunque in difficoltà e palesemente differenti, soprattutto per il colore della pelle. Un uomo, una donna persino un bambino o una bambina che dall’Africa o da certe aree dell’Asia e dell’America Latina cerchi di incamminarsi verso il Nord del mondo non devono affrontare solamente – e sarebbe più che abbastanza – le sofferenze, le violenze, i depredamenti disumani generati dall’assenza di strade regolari a sua disposizione per la fuga o il viaggio, ma anche un vasto (anche se, grazie a Dio, niente affatto unanime) giudizio di disprezzo e di rifiuto. Il rigetto dei “clandestini”, parola sempre tragica e con un significato nobile, che letteralmente parla di una condizione d’ombra personale e collettiva, scelta per realizzare o centrare un obiettivo, resistendo all’ingiustizia e al male che trionfano sotto il sole del giorno, ma anche parola che purtroppo viene usata ormai solo come marchio d’infamia. Per questo anch’io preferisco parlare di “irregolari”, ma il risultato non cambia. Perché anche questa è una parola-scatola, di quelle in cui viene ciclicamente precipitata e catalogata una parte della nostra umanità, come se di trattasse di una sottocategoria dell’umano. Grazie, dunque, a lei che con la sua esperienza e la sua umanità indica uno dei paradossi di questo nostro tempo. Devo però ammettere che mi è difficile nutrire, anche solo per paradosso, la sua stessa amara speranza, gentile dottor Russo. Riempire i barconi di animali da compagnia non servirebbe, temo, a riconvertire e riumanizzare certi sguardi su chi è indotto o costretto alla migrazione irregolare. Gli sguardi, per intenderci, di chi replica ai suoi e miei ragionamenti con il solito sferzante: “Ma allora li volete portare tutti qui!”. Gli sguardi, insomma, di coloro che pensano che l’unico modo per governare le migrazioni sia proibirle ai poveracci e che solo chi è nato nel nostro Primo mondo è libero di camminarlo tutto e di poter scegliere dove vivere e lavorare, con tutti i timbri in ordine. Ma torniamo agli animali da affezione e alla disaffezione per le persone emigranti per forza o per speranza. Ricordo due casi emblematici, entrambi dell’estate del 2020. Il primo è quello di un gattino trovato abbandonato in spiaggia, raccolto e portato fino a Lampedusa da un ragazzo tunisino. Il secondo è quello di un barboncino arrivato nella stessa isola con una famiglia sempre tunisina. Piovvero sarcasmi veementi nel caso del cagnolino, additato addirittura come prova del fatto che il Mediterraneo sarebbe attraversato soprattutto da “vacanzieri” che non vogliono saperne delle regole. E contro l’ottima collega di Rainews, Angela Caponnetto, che aveva raccontato con delicatezza la storia del ragazzino e del micetto vennero scagliate anche raffiche di invettive. Per nuovi e vecchi “cattivisti” – nella ciclica, e oggi più sorvegliata e dunque più pericolosa “guerra contro la solidarietà” – nessun gesto buono sarebbe davvero buono se non è autorizzato dagli Stati sovrani e se viene dalla società civile, perché questo sono le organizzazioni non governative, le Ong messe di nuovo sotto processo e sbrigativamente condannate anche da ministri della Repubblica che dovrebbero misurare ogni parola, ieri il titolare della Difesa Guido Crosetto, che potrebbe farsi utilmente spiegare dai marinai della nostra Marina militare i Trattati che l’Italia ha scritto e firmato. Come se il diritto internazionale, e i princìpi morali e giuridici su cui si fonda, fosse il diritto di poteri costituiti e irresponsabili e non il diritto delle genti, ius gentium, basilare (seppur perfettibile) diritto dell’umanità e per l’umanità. Già, e non c’è cucciolo che tenga per chi alimenta questo potente cattivismo, a meno che – è già accaduto – qualche bravo collega fotoreporter o cameraman non riesca a scuoterci con una ancor più potente immagine di morte bambina (che accade in continuazione, ma lontano, nel deserto o in mare aperto, e quasi sempre senza far rumore). Soltanto questo sembra, almeno per un po’, riuscire a farci ridiventare tutti meno parolai, meno cinici e più umani. Sembra indurci a pensare ai ponti e non ai muri. Ma io continuo a sperare che anche le nostre parole di cronisti e di cittadini, anche se sono appena una lontana eco della Parola buona per eccellenza per noi cristiani e non solo per noi, possano rivelarsi semi di comprensione, di giusta decisione e di regole che accompagnino e salvino la vita umana e mai la scartino.