C>aro direttore,venerdì scorso, in riferimento alla decisione della Suprema Corte Usa in materia di matrimoni gay, il presidente Obama ha così commentato: «È una vittoria per l’America... la Suprema Corte ha riaffermato che tutti gli americani sono eguali davanti alla legge, hanno le stesse protezioni, hanno diritto allo stesso trattamento, chiunque essi siano, chiunque essi amino». Allora io mi chiedo: perché non applicare subito la stessa misura alla "pena di morte"? Se non è giusto che una coppia gay in Massachusetts possa sposarsi e in Mississippi no, perché è giusto che in uno Stato a decidere della morte di un uomo sia Dio e in un altro una sedia elettrica o un altro strumento letale?
Saverio Fontana, Catanzaro
Gentile direttore,
a parte l’imbarazzo di vedere come un giudice, sia pure supremo, possa decidere per 320 milioni di americani sul matrimonio (dono della maternità) tra persone dello stesso sesso, a quelli che guardano con plaudente ammirazione il "progresso" degli Usa con le recenti sentenze suggerirei almeno un po’ di cautela. Bisogna constatare che in quel grande Paese è praticata largamente – e ora dallo stesso giudice delle nozze gay è stata ri-legittimata – la pena di morte, si attua l’aborto anche a gravidanza avanzata e si finanzia la sua diffusione nel mondo, le cure per i malati sono riservate ai ricchi e si fanno guerre per "controllare" le risorse energetiche di altri Paesi...
Valter Boero, TorinoIl direttore risponde:Le amarissime considerazioni degli amici lettori somigliano ai pensieri che mi si sono affollati in testa in questi giorni e che tante altre persone – ne sono sicuro – si sono ritrovati a fare, tra ferita perplessità, tristezza e, spesso, indignazione. Gli Stati Uniti – quest’amata e un po’ mitica America, che avevamo imparato a collegare felicemente all’idea di una libertà vera perché associata a un senso "globale" di responsabilità – sembrano diventati patria di contraddizioni sempre più grandi e di troppe miopie egoiste. Un luogo dove – ahinoi – prende sempre più forma una visione della libertà e della giustizia che non si cura delle conseguenze di scelte e di verdetti.Amore e morte, sono compagni di strada nella vita degli uomini e delle donne di ogni tempo. E anche qui troviamo che s’inseguono e s’affiancano, come altre volte nella storia (e altrettanto ingiustamente) nel giudizio di un tribunale, la Corte Suprema di Washington. Da una parte, c’è l’amore che si pretende di stabilire e regolare per legge. L’obiettivo effettivo, però, è quello di ottenere una legittimazione formale della relazione tra persone dello stesso sesso, sebbene lo Stato riconosca e civilmente tuteli l’istituto matrimoniale non perché sia il luogo dell’amore, bensì perché la famiglia fondata sul matrimonio è il grembo naturale e (tendenzialmente) ottimale della nuova vita e, dunque, del futuro di una società. Dall’altra parte, c’è la morte che si continua a irrogare come massima pena, ovviamente nel nome della legge, anche se in realtà si tratta di una sanzione che fallisce terribilmente due volte. La prima perché non "retribuisce" alcun crimine, ma lo emula ("tu hai ucciso, tu verrai ucciso") e dunque lo ripete in modo solenne, legalizzandolo. La seconda perché non "recupera" alcun essere umano, lo cancella e basta.La morale, cari amici, è che la legge – con articoli, commi e codicilli – può risolvere saggiamente molti problemi, ma non esiste legge umana che possa pretendere di occuparsi e – dicendo una parola sensata – di decidere che cosa è amore e di signoreggiare sulla morte. Per chi crede, c’è la legge di Dio. Per tutti, c’è la legge della natura che la cultura aiuta a comprendere. E, poi, c’è il cuore di ogni uomo e di ogni donna, che qui, ora, su questa terra, dell’amore e della morte non conosce e non riconosce altro e più alto giudice.Marco Tarquinio