Con una sentenza che possiamo senza dubbio definire "storica", la Corte Suprema degli Stati Uniti di America ha stabilito all’unanimità che non è possibile brevettare Dna umano. In discussione erano proprio i test che hanno permesso ad Angelina Jolie di diagnosticare la sua predisposizione genetica al cancro al seno. Sequenziando e brevettando due geni, noti come BRCA 1 e 2, la compagnia americana Myriad Genetics ha potuto godere da quasi vent’anni del monopolio sui test che ne individuavano le varianti, cioè le "versioni" pericolose, che aumentano di molto le probabilità di ammalarsi di tumore al seno o alle ovaie. Con questo pronunciamento i due brevetti sono annullati, e il mercato di questi test si aprirà alla concorrenza. Il divieto di brevetto riguarda il Dna naturale, e non quello sintetico. Solo le applicazioni future del verdetto ci diranno se la distinzione della Corte, concretamente, lascia margini di ambiguità, come qualche osservatore ha ipotizzato. Dal punto di vista dei principi, si tratta di un bel passo in avanti contro il nuovo mercato del corpo umano e delle sue parti, nato da un certo modo di intendere gli sviluppi delle biotecnologie, specie quelli legati alla biomedicina. Un mercato che ha radici profonde, e non solo di tipo economico: la questione della commerciabilità di parti del corpo umano, o comunque della possibilità di trarne profitto, si pone quando cerchiamo di rispondere a una domanda apparentemente banale: "A chi appartiene il nostro corpo". Alla quale segue subito un’altra: "A chi appartiene il creato". C’è una letteratura sterminata a riguardo, di studiosi di tante diverse discipline, e non potrebbe essere altrimenti: rispondere significa aderire a una visione antropologica piuttosto che a un’altra e, quindi, assumere, per esempio, come criterio un’autodeterminazione estrema, che consentirebbe di vendere parti del proprio corpo per trarne legittimamente un guadagno, oppure riconoscere che non ci si è fatti da sé, e che ogni persona è definita anche dalle relazioni con il prossimo, e che la compravendita di parti del proprio corpo è sempre e comunque un vulnus alla dignità umana. La sentenza della Corte Suprema americana ha operato, almeno dal punto di vista dei principi affermati, una distinzione di assoluto buon senso fra "naturale" e "sintetico", fra ciò che è creato e modificato nel tempo da eventi naturali, e ciò che invece è il prodotto del diretto intervento umano, e ha stabilito che ciò che è dato dalla natura appartiene a ciascuno – come il Dna –, ma anche all’intera comunità umana, e non può essere utilizzato a fini di profitto soltanto da alcuni. Due concetti nient’affatto scontati di questi tempi, con conseguenze che vanno ben oltre quelle, comunque enormi, della libertà di ricerca e dei brevetti dei test genetici, cioè dell’immenso business intorno alle scoperte del genoma umano. Nella sentenza ben si chiarisce: «Myriad non ha creato nulla. Ha sicuramente trovato un gene utile e importante, ma separare quel gene dal materiale genetico circostante non rappresenta un atto di invenzione». Insomma, c’è un giudice, in America, che assieme ad altri otto, ha riconosciuto che "naturale" e "artificiale" sono due realtà distinte e distinguibili, e che la prima va tutelata.