Caro direttore,
la prospettiva di una chiusura di tutte le nostre frontiere, di mare e di terra, paventata da Matteo Salvini, ormai incontrastato premier in pectore del Governo, mi ha fatto pensare agli hikikomori, quei giovani giapponesi – pare siano circa un milione – che si auto-recludono in casa e mantengono contatti con l’esterno solo attraverso internet, di solito con false identità. La differenza è che la nostra casa è piena di gente - populismo, lo chiamano - che parla per slogan, che semina paura, che aumenta parallelamente il volume della voce e il consenso ottenuto dai suoi strepiti. È una casa sporca, degradata, i cui amministratori danno ad altri la colpa delle proprie incapacità e vedono negli altri il pericolo di indimostrate invasioni e misteriosi complotti. È una casa asfittica e razzista, senza memoria né cultura: una casa delle 'libertà senza identità', dove ciascuno vuole fare i comodi suoi, ma tutti devono fare le stesse cose e pensare - si fa per dire - allo stesso modo. Siamo sempre più stretti e chiusi, in questa casa chiassosa e trista, dove ogni opposizione si arrende e ammutolisce. Qualcuno potrebbe, per carità, indicarmi l’uscita?
Paolo Izzo Roma
Questa “casa comune” di cui lei, caro Izzo, scrive e per la quale soffre è ben più di una casa. E non ha solo finestre e porte che più d’uno s’industria a sbarrare, regole fatte per escludere e abitanti sospettosi, arrabbiati e senza più identità né bandiera se non i tristi gagliardetti dell’individualismo più egoista. Certo le chiavi che contano sono affidate, ora, a personaggi che sembrano avere più slogan che umanità, ma un Paese grande e complesso come l’Italia può venir gabbato per un po’ a suon di frasi a effetto, ma non può essere piegato per sempre da chiacchiere cattive e vuote. Mi rendo conto, certo, che tanti italiani oggi sono intimoriti e un po’ frastornati a causa della gestione inadeguata dei flussi migratori in questi anni in cui le buone intenzioni si sono mescolate a pessime regole (quelle della Legge Bossi-Fini e del Trattato di Dublino) che sono state mantenute stolidamente e arcignamente in vigore e hanno sempre più “irregolarizzato” il fenomeno e inabissato vite (nel mare dei traffici), lavoro (nel nero dello sfruttamento) e umori (nel vortice della xenofobia che inclina al razzismo).
E sono consapevole del fatto che l’insistenza propagandistica (e troppo supinamente mediatizzata) sui tasti dell’«invasione» e del «complotto» ha fatto danni. Ma so anche che non ogni italiano è incamminato su questa china, rinunciando a pensare e vivere usando davvero testa e cuore e tenendo cara la grande e fraterna lezione del Vangelo. Anche in questo tempo, tanti di noi ragionano e amano e, quando è necessario, in coscienza obiettano e in responsabile libertà si oppongono con parole e gesti. E non bisogna avere paura di essere chiamati “buonisti”. Non mi stanco di scriverlo e di ripeterlo: se c’è una cosa alla quale non ci si può e non ci si deve rassegnare e che si deve rifiutare è solo il “cattivismo”. Abbiamo il dovere di restare veri, e umani, mentre va in scena l’odiosa recita del “noi” e “loro” (che comincia sempre contro i più deboli). Lei lo sa già perfettamente: ogni porta d’entrata, in una vera casa, è anche porta d’uscita. Per questo porte e porti vanno custoditi, ma mai chiusi. E in Italia c’è da ricostruire una condizione che consenta di andare e venire con civile e regolata regolarità, non c’è da trincerarsi o rintanarsi o da scappare... Coraggio.