All’indomani degli attacchi di Parigi, tra le opinioni e le analisi si fa finalmente spazio anche la critica delle spregiudicate politiche di esportazione di armamenti di molti Paesi occidentali. In breve, nei Paesi che ora temono un’ulteriore espansione dell’Is, con conseguente escalation della violenza terroristica, ci si rende conto di essere stati in prima linea nella fornitura di armi a governi nella regione mediorientale rendendo più facile la recrudescenza dei conflitti in corso e del loro contagio.Per la verità, a questo proposito lo scenario è complesso ed è difficile da decifrare appieno. Come è noto, i dati ufficiali, offrono solamente un quadro parziale. Le fonti delle armi a disposizione dell’Is non sono esattamente note sebbene esistano fondati ipotesi in merito al sostegno che questo riceve da alcuni Paesi dell’area. Secondo, ad esempio, l’organizzazione non governativa Small Arms Survey, l’Is ha avuto la disponibilità di armi provenienti dall’Arabia Saudita, e la stessa accusa grava anche sul Qatar. Nei fatti, una volta che le armi sono disponibili nei mercati ufficiali, vengono poi esportate di nuovo e introdotte in Paesi e in aree in cui l’esportazione diretta non sarebbe consentita dalla regolamentazione dei Paesi produttori e dagli accordi internazionali. Questo vale in particolare per le armi leggere in quanto facilmente occultabili e trasportabili. Sui campi di battaglia della Siria settentrionale, ad esempio, sono spesso ritrovate armi di produzione russa, americana, cinese e di vari Paesi europei.In ogni caso, se dubbi esistono in merito ai canali precisi di fornitura di armi a favore dell’Is, non ve ne sono in merito alle forniture legittime ai Paesi dell’area. Negli ultimi anni, infatti, molti Stati mediorientali hanno aumentato in maniera significativa le proprie spese militari. Nello specifico, la regione nel suo complesso ha aumentato le spese militari del 68% in termini reali tra il 2004 e il 2014. In particolare, l’Arabia Saudita ha aumentato la propria spesa militare del 156%, gli Emirati Arabi Uniti del 114%, l’Iraq del 344%, il Qatar del 64% e la Turchia del 9%. In Siria tra il 2004 e il 2011 essa era aumentata del 7%.Tale tendenza ha generato commesse militari di cui hanno beneficiato molti Paesi europei. L’Istituto di Stoccolma di ricerca sulla pace (Sipri), fornisce i dati del commercio di armi convenzionali, utilizzando una misura in dollari per cui è possibile operare una stima dei volumi di armi consegnati sebbene questa non corrisponda esattamente ai prezzi di vendita reali.
A partire dal 2007 la Francia ha consegnato armi per un valore equivalente a cinquecento milioni di dollari all’Arabia Saudita, al Qatar per un valore di poco superiore ai centodieci milioni, e per il periodo 2000-2014 agli Emirati Arabi Uniti per quasi quattro miliardi e settecento milioni di dollari. La Germania fino al 2007 esportava una quantità trascurabile di armi convenzionali all’Arabia Saudita, ma tra il 2008 e il 2014 le esportazioni tedesche hanno raggiunto il valore di trecento milioni di dollari. Analogamente, tra il 2005 e il 2014 le consegne di armi tedesche verso Turchia ed Emirati Arabi Uniti sono state rispettivamente pari a due miliardi e a centottanta milioni di dollari. Anche le imprese italiane hanno aumentato in maniera significativa le esportazioni verso i Paesi del medio-oriente. Le esportazioni di armi convenzionali verso gli Emirati Arabi Uniti ad esempio, erano pari a zero solo una decina di anni fa, mentre nel solo 2013 sono arrivate a più di trecento milioni di dollari. Nel periodo 2009-2013 armi per un valore equivalente a quasi cento milioni di dollari sono state consegnate al Qatar e alla Turchia per circa 350 milioni. Se guardiamo alle armi leggere, secondo l’Istituto di ricerca sulla Pace di Oslo (Prio), nel solo periodo 2010-2013 verso l’Arabia Saudita ne sono state esportate dall’Italia per un valore effettivo di più di quattordici milioni di dollari.Questo breve quadro contribuisce a chiarire come la quantità di armi è aumentata in maniera sostanziale in pochi anni. Come stupirsi, quindi, della recrudescenza dei conflitti in Siria, in Iraq e in altre parti dell’area. È chiaro che una più severa regolamentazione del commercio di armi a livello globale è quindi il primo indispensabile passo per mitigare i conflitti in corso. Inoltre, i Paesi dell’Unione Europea che in queste ore cercano di coordinarsi su un’azione militare comune dovrebbero prima di tutto confrontarsi sul fatto che molte imprese produttrici di armi sono di proprietà pubblica. Nel momento in cui le nostre democrazie si sentono minacciate, è ora di abbandonare la via di questi affari insensati, disinvestendo dalle industrie militari per contribuire a disinnescare gli incentivi alle guerre in regioni a noi pericolosamente vicine.