Ci sono appese foto di bambini sorridenti per la prima volta in gita al fiume, donne alle prese con le lezioni di tedesco, la lingua su cui tanti puntano e sperano per il futuro. E ancora adolescenti entusiasti che stappano una coca-cola come fosse champagne e avessero appena vinto la Champions League. Un racconto pieno di umanità e di speranza, un inno alla gioia fotografico, appeso alle pareti, del primo “social café” per richiedenti asilo.
Si tratta di uno spazio di aggregazione ed educazione non formale, nel centro per richiedenti asilo di Bogovadja, in Serbia. Il progetto è promosso da Ipsia (la Ong delle Acli), Caritas italiana, Caritas ambrosiana e Caritas Valjevo che lavorano da ottobre 2016 nel centro di transito per richiedenti asilo di Bogovadja, a 70 km da Belgrado, con uno staff di operatori locali e internazionali, offrendo supporto psicologico e proponendo attività culturali e di educazione non formale.
Il social café - una stanza ristrutturata da Ipsia e Caritas all’interno del centro di Bogovadja, ma situata in un edificio separato - è parte di un progetto più ampio che risponde a molti dei bisogni dei profughi, come spiega Mauro Montalbetti, presidente di Ipsia: «Vuole essere uno spazio di aggregazione e di informalità, di rottura dalla routine quotidiana, dal trascorrere del tempo sempre uguale a se stesso». «Va oltre la risposta all'emergenza, il social café permette il riconoscimento della persona nella sua dignità, attraverso la valorizzazione delle proprie capacità e competenze», aggiunge Sergio Malacrida, responsabile per l’Europa orientale di Caritas ambrosiana, che si trova in Serbia per partecipare al taglio del nastro.
Se l’obiettivo principale del social café è migliorare la qualità del tempo che le persone trascorrono nel centro per i richiedenti asilo, viene da chiedersi quali siano queste condizioni. Bogovadja non ha problemi di sovraffollamento, la struttura è stata rinnovata di recente: vengono garantiti i pasti e un buon servizio di pulizia. Le famiglie riescono a non essere divise e a dormire in una camera propria. In altre parole, i bisogni primari sono garantiti in ogni modo. Da settembre, e questa è una novità, i ragazzi del campo possono andare a scuola. Ed è decisamente un grande passo avanti: ma quindi, cosa manca?
Mancano la prospettiva di futuro, la libertà di movimento e di azione, la speranza di un miglioramento di vita per i propri figli. Le persone quando tentano di andarsene da Bogovadja, ma, più in generale dalla Serbia, usano l'espressione "I go game". Traduzione: vado a giocare. Con la mia vita, con quella dei miei figli, dei miei fratelli, delle mie sorelle, delle persone a me più care. Ma perché giocare con la vita? Per quale motivo esporsi a umiliazioni, soprusi e violenze? Se non per un sogno: migliorare le condizioni della propria esistenza in quell'Europa, sempre più chiusa dietro a fili spinati e invalicabili frontiere.
Le aspettative e i desideri dei profughi non sempre fanno i conti con la dura realtà della rotta balcanica: negli ultimi due anni lo scenario migratorio è profondamente cambiato nei Balcani dove si è passati dal veder transitare ogni giorno migliaia di persone dai confini porosi tra Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia, Ungheria e Austria, alla decisione concordata fra gli stessi Stati dell'Europa orientale di chiudere le frontiere e di fatto, bloccare le persone in un limbo incolpevole.
Oggi vige la legge dell'attesa: c'è una lista istituita nei 18 centri di accoglienza governativi che stabilisce l'ordine per il passaggio legale in Ungheria: 5 persone alla settimana da tutta la Serbia che si traduce in infiniti mesi di attesa e impossibilità di pianificare il futuro per migliaia di persone bloccate nel Paese. In Serbia, la maggior parte dei rifugiati, richiedenti asilo e migranti - poco più di 4mila su un totale di 7.600 profughi presenti in tutto il Paese, fonte Acnur Serbia - è ospitata in 18 campi profughi governativi. Secondo gli ultimi dati, il 43% è costituito da minori, il 14% da donne e il 43% da uomini adulti. Soprattutto sono afghani (66%), iracheni (11%), siriani (5%) e pakistani (9%).
Che alternative ci sono per queste migliaia di persone? «Chi non vuole aspettare e ha i soldi prova a passare con l’aiuto dei trafficanti di base a Belgrado. In questo momento la tariffa è di 1.500 euro per un passaggio verso l'Ungheria - spiega Silvia Maraone che per la ong delle Acli, Ipsia, lavora a Bogovadja nel centro di transito per richiedenti asilo -. ma è un’economia che si autoalimenta. I trafficanti spesso hanno accordi con chi sta alla frontiera, e hanno tutto l’interesse a rimandare indietro chi prova a passare», chi è disposto al "game", a "giocare" con la propria vita. Ogni respingimento, ogni profugo ricacciato indietro significa nuovi incassi per i trafficanti e così si va avanti in un perverso "gioco" di vite umane che si perdono.