A un anno dall’accordo tra Unione europea e Turchia sui profughi stipulato il 18 marzo del 2016, Bruxelles sta facendo di tutto per non rimetterlo in discussione, nonostante abbia provocato una situazione umanitaria disastrosa in Grecia e nei Balcani.
La Turchia, invece, minaccia di rivedere i termini dell’accordo. Il 13 marzo – nel pieno di una crisi diplomatica con diversi paesi dell’Unione europea, tra cui i Paesi Bassi e la Germania – il ministro per gli affari europei di Ankara, Ömer Çelik, ha affermato che la Turchia dovrebbe rimettere in discussione la clausola “sul transito via terra” dei migranti.
Da quando l’Unione europea ha concesso alla Turchia tre miliardi di euro per fermare l’arrivo dei profughi sulle coste greche, il numero delle persone che hanno affrontato la traversata dell’Egeo si è ridotto a 1.500 nel gennaio del 2017 (nello stesso periodo del 2016 erano state 70mila).
Le ong internazionali, tra le altre Oxfam Italia, hanno denunciato come l'accordo Ue-Turchia abbia trasformato la Grecia in un “laboratorio” per le fallimentari politiche di chiusura dell’Unione Europea nei confronti di decine di migliaia di migranti. Una denuncia analoga per toni e contenuti riguarda anche la Serbia: a rilanciarla è stata una delegazione italiana, formata da rappresentanti di Caritas Ambrosiana, IPSIA-Acli, che assieme allo staff di Caritas Italiana e Caritas Serbia che nelle scorse settimane ha visitato 7 campi profughi in Serbia per valutare i possibili interventi futuri correlati alla crisi migratoria nei Balcani.
«È evidente dai dati e dai monitoraggi sul campo che l’emergenza è ben lontana dall’essere risolta - si legge nel report di Caritas e Ipsia-Acli -, anzi, potrebbe generare nuove tensioni e sicuramente sta andando avanti ad alimentare il mercato nero, il traffico e le attività illecite connesse a questa crisi umanitaria. I “buoni risultati” raccontati a Malta sono forse quelli di chi guarda soltanto all'interno del territorio comunitario: da marzo 2016 infatti i numeri di ingressi di migranti nel territorio dell'UE provenienti dalla rotta balcanica sono drasticamente calati. Ma l'emergenza non è affatto risolta: è stata solo trasferita fuori dai confini comunitari, in Paesi come la Serbia e la Macedonia, oppure nei paesi più periferici del continente, come la Grecia».
La situazione in Serbia. Secondo i dati ufficiali dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati sono 7.700 I rifugiati e richiedenti asilo in Serbia, di questi l’85% si trova all’interno dei 17 campi gestiti dal commissariato per i rifugiati e le migrazioni del Governo serbo mentre la restante parte si trova a Belgrado o al confine con l’Ungheria in rifugi di fortuna, cercando il modo di andare avanti nel proprio cammino. L’unica porta aperta verso l’Europa è l’Ungheria, attraverso le due zone di transito di Kelebija e Horgos, da dove sono autorizzate a passare 10 persone al giorno.
L’accordo, che permette all’Europa di rimandare indietro i richiedenti asilo dalla Grecia alla Turchia, delegando a quest’ultima la responsabilità di garantire la protezione delle persone che hanno cercato un rifugio in Europa, sta causando sofferenze indicibili ai profughi bloccati sulle isole greche e sulla terraferma.
Secondo le autorità greche, oggi in Grecia 14.371 persone sono trattenute negli hotspot sulle isole in condizioni disumane, ben oltre la capienza complessiva dei campi che sarebbe di 7.450 posti. Sulla terraferma circa 50mila persone (sopratutto siriani, afgani e iracheni) vivono da mesi nei campi profughi in attesa che la richiesta d’asilo, di ricollocamento o di ricongiungimento familiare sia esaminata dalle autorità.
Dalla Grecia sono state spostati in altri paesi europei solo 9.610 profughi dei 160mila previsti dal programma di ricollocamento dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio del 2015. Per questo molti profughi continuano a mettersi in viaggio lungo la rotta balcanica affidandosi a passeurs e trafficanti. Ma sulla loro strada trovano recinzioni, filo spinato e guardie di frontiera a bloccarli con arresti, minacce e violenze.
Nell’ultimo anno 25mila persone hanno percorso questa rotta, affrontando pericoli, difficoltà e umiliazioni. E rischiando la vita. Dal 20 marzo del 2016, almeno 140 persone sono morte sulla rotta balcanica o nella traversata dell’Egeo.
Le persone più vulnerabili come donne e bambini (rispettivamente il 21% e il 28% degli arrivi dal marzo scorso), oltre al trauma di essersi dovuti lasciare un’intera vita alle spalle per scappare da guerre e persecuzioni, negli ultimi 12 mesi hanno dovuto vivere in condizioni “disumane”. Moltissimi hanno passato l’inverno sotto le tende, esposti al freddo e alle malattie, senza assistenza medica o sostegno psicologico.
Le procedure di richiesta d’asilo sono inoltre poco chiare, rese impossibili da infiniti ostacoli, di fatto la negazione del diritto a ricevere protezione. (Le foto sono di Oxfam Italia)