martedì 12 dicembre 2023
Padre Romanelli è a Gerusalemme ma in contatto con la sua comunità: «La nostra parrocchia è un rifugio per tutti. Nessuno pensa a una rivolta. La fede non toglie sofferenza, ma aiuta a sopportarla»
Padre Gabriel Romanelli, parroco di Gaza "in esilio" a Gerusalemme

Padre Gabriel Romanelli, parroco di Gaza "in esilio" a Gerusalemme

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Anche oggi, da Gerusalemme, dove è rimasto bloccato dal 7 ottobre, padre Gabriel Romanelli ha avuto un contatto con la sua comunità a Gaza: «Molto breve, perché è caduta la linea». Negli ultimi tre giorni, per lo stesso motivo, anche papa Francesco non è riuscito a chiamare il suo vicario, padre Youssef, a Gaza City, ma in questi due mesi il “parroco in esilio” si è sentito spesso con papa Bergoglio con cui un canale di comunicazione è aperto in qualsiasi momento.

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«Siamo 135 cattolici, ma tutta la comunità cristiana, compresi gli ortodossi, è venuta a rifugiarsi in parrocchia, per loro l’unico luogo sicuro. All’inizio, erano 500 persone, oltre ai piccoli handicappati delle suore di madre Teresa, mentre padre Youssef è andato a cercare gli ammalati e gli anziani soli. Sono molto preoccupati, stanchissimi ma hanno una grande fiducia nella Provvidenza: non sopportano più il rumore dei bombardamenti, ancora più intensi dopo la tregua. Non siamo un obiettivo militare, però la struttura è danneggiata: la cosa più grave è la carenza di diesel con cui azioniamo il generatore e la pompa dell’acqua. La scorsa settimana se ne trovava ancora qualche litro, ora non ce n’è più. Si cucina solo tre volte alla settimana per dividere quello che si ha tra i bambini e le famiglie. E poi lo si dà ai vicini musulmani che vivono attorno alla parrocchia. Ma la cosa peggiore è l’ansia, non sapere fino a quando durerà tutto questo. La tregua passata ha provocato un alito di speranza che il peggio fosse passato, ma chi è uscito dopo un mese e mezzo ha trovato la casa distrutta o inagibile. Non è la prima guerra che si vive a Gaza, ma le altre volte c’era sempre la casa di un parente. E poi ci sono i traumi psicologici: anche il rumore può ferire, e di bombe ne cadono a migliaia. Durante le altre guerre facevamo subito attività di socializzazione per i bambini, le famiglie: una sorta di terapia comunitaria. Adesso casa si potrà fare?».

Si segnalano assalti ai convogli umanitari, ai magazzini dell’Onu: c’è rabbia, rivolta anche fra i cristiani?

Fuori dalla parrocchia intanto manca tutto: le persone sono per strada affamate. La maggior parte è andata a Sud, alcuni sono già ritornati: a Gaza City rimangono 300-400mila persone. Gaza non è un luogo semplice, da 16 anni è sotto assedio, prima però entravano materiali, c’erano permessi di lavoro anche se inferiori alle necessità. Ma rivolta, fra i parrocchiani, no: forse anche perché vivere in un luogo di guerra aumenta la capacità di sofferenza. Non sento, non mi scrivono espressioni di odio e vendetta: piuttosto chiedono disperatamente la pace, un cessate il fuoco, la fine delle morti e delle distruzioni.

I cristiani hanno scelto di restare a Gaza. Perché questo radicamento?

Mi chiedono, padre, andare dove? Al Sud, dove non ci sono le strutture della Chiesa? E poi c’è l’impossibilità materiale per 54 minori disabili, oltre agli anziani e una decina di feriti gravi.

Come riuscite ad assistere questi 54 disabili e gli anziani?

Come la comunità cristiana primitiva, si distribuisce quello che si ha, e si dà di più a chi ha più bisogno. Ci siamo organizzati in comitati per il cibo, l’acqua, la sicurezza. Quotidianamente ci sono due Messe e durante il giorno diversi gruppi recitano il rosario e poi si dedicano ai vari servizi. Ma mancando l’acqua la situazione è più grave e per chi è sfollato dove non c’è niente, la situazione è ancora peggiore.

A Gaza, secondo Haaretz, i civili uccisi sono il 61% delle vittime, nel 2021 erano il 40%: più che in Afghanistan, Iraq e Siria. Che nome dare a queste statistiche?

Non lo so. I cristiani morti erano tutti civili: la comunità cristiana, un migliaio di persone in tutto, ha avuto il 2% di vittime. Abbiamo perso 21 persone: 17 morti nel bombardamento di fronte alla chiesa greco-ortodossa, una donna è stata assassinata da un cecchino, tre i morti per problemi di salute curabili: un cardiopatico, una ferita recuperabile, una peritonite. Non so che nome dare a tutto questo.

C’è chi dice che Israele ha il diritto a difendersi. Cosa risponde a questa affermazione?

Tutti hanno diritto alla difesa, però, pure per difendersi ci sono delle nome. Noi siamo contro ogni sorta di violenza: il 7 ottobre è stato terribile, un orribile crimine, 30 o 31 bambini uccisi oltre a quelli sequestrati. Terribile, e vale per qualsiasi bambino ucciso: ebreo, musulmano, druso. Eppure nella Striscia di Gaza sono più di 7.700 i bambini uccisi e il numero sale. In questo momento è molto difficile discutere, se trovi due persone che litigano per strada, che tu sappia o no la motivazione, cerchi di fermarli: è il momento dello stop, del cessate il fuoco.

Lei passerà il Natale lontano dalla sua parrocchia.

Non so, magari potrò entrare, passarlo con loro.

Glielo auguriamo di cuore. Come si può vivere il mistero dell’Incarnazione in questa situazione?

La fede non ci toglie la sofferenza, forse dandole un senso la fa diminuire: ma sappiamo che la sofferenza è limitata, che il male ha pure un limite come lo ha il buio della storia umana. Da Dio viene la salvezza, viene la luce: l’Incarnazione è appunto l’ingresso di Dio nella storia dell’umanità. La gioia di Betlemme già basterebbe per vivere nella gioia, però il Figlio di Dio incarnato ha voluto soffrire la solitudine, essere rifugiato, ha voluto soffrire soprattutto la passione e la morte, per insegnarci che ogni sofferenza ha un limite.

La pace è ancora possibile? Quale sarà il segnale che questa tragedia sta finendo?

Il primo passo, penso sia il fermarsi delle ostilità. E poi la possibilità di aiuto umanitario vero in tutta la Striscia, pure al Nord. In due mesi di guerra sono arrivati 3.200 camion di aiuti, prima ne entravano 500 al giorno, e nemmeno allora bastava: in due mesi meno di quello che entrava in una settimana. E adesso le persone, fuoriuscite di casa, hanno più bisogno. E poi penso si debba proseguire negli scambi tra ostaggi e prigionieri perché possono riconciliare le famiglie, un quartiere: quello è un segno di speranza. Uno stop nei combattimenti, non sarà la soluzione, ma può essere come il ramoscello di ulivo nel becco della colomba. Noi cristiani di Gaza auguriamo pace a tutti: pace a Israele e pace alla Palestina.

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