I volontari al lavoro per ricostruire la Casa della Cultura di Kherson - undefined
«Un evento storico». In occasione del primo anniversario di quella che Mosca definisce la «riunificazione delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e delle regioni di Zaporizhzhia e Kherson» con la Russia, il presidente russo Vladimir Putin ha sfoderato la sua retorica, congratulandosi con tutti i residenti del Paese per questo «evento determinante, veramente storico e fatidico». Un anno fa, ha dichiarato, «è stata fatta una scelta consapevole, attesa da tempo, combattuta e veramente popolare». E gli abitanti del Donbass «hanno mostrato coraggio e carattere inflessibile». Il popolo del resto della Russia «ha sostenuto con tutto il cuore la scelta dei propri fratelli e sorelle: difendendo i loro compatrioti nel Donbass, i russi stanno combattendo per la loro Patria, per la sua sovranità per i valori spirituali e l’unità, per la vittoria». Gli ha fatto eco Dmitrij Medvedev, vice del Consiglio di sicurezza della Federazione per il quale «l’operazione militare speciale continuerà fin quando il regime nazista di Kiev non sarà stato completamente distrutto. E ci saranno altre nuove regioni ucraine all’interno della Russia». Sul fronte opposto, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha inaugurato a Kiev il primo forum internazionale dedicato all’industria della difesa, con la volontà di attirare produttori in grado di produrre armi in Ucraina e “costruire un arsenale” contro la Russia. L’Ucraina ha riunito ieri a Kiev 252 aziende del settore della difesa provenienti da 30 Paesi:_«Siamo interessati a localizzare la produzione delle attrezzature necessarie alla nostra difesa e dei sistemi di difesa avanzati utilizzati dai nostri soldati», ha riassunto. Zelensky ha incassato il nullaosta degli Usa, grazie a un accordo firmato con il presidente Biden. Kiev prevede di spendere 1,5 miliardi di dollari per la produzione di armi nel 2024. Infine ieri si è appreso che il soldato e fotografo ucraino Volodymyr Myroniuk, 59 anni, conosciuto come “John”, è rimasto ucciso in prima linea vicino nel Donetsk. Myroniuk «è morto con la macchina fotografica tra le mani», ha riportato il Kyiv Independent.
Mentre Alberto trascina fuori le assi del tetto carbonizzate dal drone incendiario, Valeria e Sebastiano danno una mano agli altri volontari di Kherson che hanno deciso di dichiarare guerra alla guerra. Ricostruendo. Anche questa è resistenza. «E non serve a niente parlare di pace, di nonviolenza, se poi non capisci che qui c’è qualcuno che ha deciso di colpire volutamente i civili. Guarda cos’hanno fatto», esclama Alberto Capannini che coordina la missione di Operazione Colomba in Ucraina. Qui a Kherson non si sa neanche da dove cominciare.
Ci sono più probabilità di morire che altrove. I referti del pronto soccorso cittadino spiegano meglio di un analista militare. Ogni giorno arrivano morti e feriti. Uscire per strada significa rischiare di finire dentro al mirino di un cecchino, oppure intrappolati sotto i colpi dell’artiglieria che spara a pioggia, centrati in pieno da un drone bomba, travolti dall’esplosione di un missile, «o uccisi da un infarto quando il cuore non regge più alla paura», raccontano i medici. Il corpo non violento di Pace della Comunità Giovanni XXIII era arrivato in Ucraina pochi giorni dopo il primo missile russo scagliato contro il Paese. Odessa, Mykolaiv, adesso Kherson, la città che guarda letteralmente in faccia i battaglioni russi, appostati al di là del fiume che da Nord a Sud attraversa e costeggia l’abitato. La Casa della Cultura era insieme un rifugio, un ritrovo, un centro per la distribuzione degli aiuti umanitari, un pronto soccorso elettricità per ricaricare i telefoni quando la corrente va via, oltre che uno dei pochi luoghi dove si distribuisce acqua potabile e ci si collegava a internet. «Dopo l’inondazione provocata dalla distruzione della grande diga sul Dnepr – racconta Capannini – dai rubinetti usciva acqua sporca». E così come era accaduto a Mykolaiv dove la rete delle associazioni italiane con una delegazione guidata dal vicepresidente della Cei, il vescovo Francesco Savino, aveva portato i potabilizzatori, anche a Kherson Capannini e i suoi hanno ricominciato dal dissetare. I ragazzi fanno a turno. Alcune settimane sotto i bombardamenti, poi a casa in Italia, a cedere il posto agli altri operatori. La gente del posto fa a gara per ospitarli.
Sanno dai media che nella Penisola si è sviluppato un curioso dibattito sulla guerra, non immune dalle infiltrazioni russe, ma questi italiani che senza fucile arrivano qui per rimettere a posto i sassi senza chiedere niente in cambio, sono amati anche se non parlano la lingua delle armi. Per distruggere il ritrovo dei civili di Kherson c’è voluto impegno e precisione. Perché non si trova a portata di fiume. Bisogna prendere la mira senza esitare, calcolare la parabola, scavalcare i palazzi dirimpetto, senza sbagliare un centimetro. L’attacco non può essere considerato un «effetto collaterale». L’edificio è stato colpito «non da uno, ma da tre droni kamikaze – spiega Capannini che per dormire deve far finta di non sentire più le sirene d’allarme –. È stata una cosa voluta». Visti da qui i battibecchi italiani gli paiono come l’acqua non potabile che esce dai rubinetti: «Mi colpisce questa incapacità di capire che i civili e le infrastrutture civili sono un obiettivo delle forze russe, non sono vittime per sbaglio. Facile dire no alla guerra, poi – dice Alberto quasi esortando – bisogna venire qui e provare a far qualcosa, perché con gli slogan le macerie restano macerie». E ne stanno spostando a tonnellate, di calcinacci, travi spezzate, finestre volate via. Sebastiano Losi e Valeria Gaita fanno su è giù. In due non arriveranno a cinquant'anni. Ad ogni viaggio tornano più sporchi di prima, e chissà dove trovano tutta quell’energia. E ce ne vuole di forza nel cuore per essere qui, a portata del piombo.
Fuori intanto aggiustano il tiro. Artiglieria e mortai preparano il terreno alle ondate di droni. Una quarantina intercettati ieri nel Sud del Paese, ma una decina sono andati a segno contro infrastrutture civili e militari. A Kherson è arrivato l’ordine di far allontanare le famiglie con figli al di sotto dei 17 anni. Kiev si appresta a tentare una sortita. Mentre a Odessa il commissario Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, ha toccato «le conseguenze di questa guerra, il prezzo alto che la città e l'Ucraina stanno pagando». Al tramonto è calato il silenzio.
E quando arriva, tutti sanno che il cielo muto non è latore di buone notizie. Al largo ci sono navi con 14 missili. Sono appostate da due giorni, senza sparare un colpo. E chissà che domani nella Casa della Cultura di Kherson non si debba ricominciare daccapo. «Per noi può sembrare inspiegabile, irrazionale. Ma qui – ci saluta Capannini – la gente crede davvero che rimettere in ordine, ricominciare ogni volta, significa resistere».