Un gruppo di donne ad Herat - Ansa
«Riusciranno a impadronirsi di Kabul? E se accadrà, quanto tempo ci vorrà? Ci saranno negoziati? Qui in città sono questi gli interrogativi che ci poniamo e che non fanno altro che aumentare l’ansia». Usa anche la parola «panico» per descrivere l’atmosfera nella capitale afghana, Freshta Karim, talentuosa attivista trentenne, un master in politiche pubbliche a Oxford, rientrata nel suo Paese dopo gli studi per avviare una fortunata organizzazione no profit chiamata Charmaghz, di cui Avvenire ha raccontato un anno fa: biblioteche per bambini allestite su autobus che circolano per la città con l’obiettivo, ardito, di contribuire a costruire una società diversa, attraverso la lettura e il gioco.
L’impresa le è valsa il riconoscimento della rivista Forbes, che l’ha inserita fra i «30 leader under 30» dell’imprenditoria sociale globale.
Ora Freshta Karim si trova con un’attività educativa ben avviata in un Paese in cui, dopo il ritiro della quasi totalità delle forze statunitensi e dei loro alleati, guadagnano terreno i taleban. Mentre interi distretti vengono conquistati o restano contesi, incombe il rischio terrificante che i miliziani si spingano a Kabul, su cui martedì scorso, nel primo giorno di festa per l’Eid al-Adha, sono piovuti tre razzi nei pressi del palazzo presidenziale.
Al telefono, nelle parole dell’attivista si sente tutta l’apprensione per l’andamento della guerra, ma poca è la sorpresa: «L’accordo che gli Usa hanno raggiunto nel febbraio 2020 con i taleban è andato interamente a beneficio di questi ultimi, senza che il governo afghano avesse nulla in cambio. Era logico aspettarsi che avrebbero tentato di avanzare il più possibile e che si sarebbero sentiti liberi di usare più violenza. Inoltre, ci sono tanti modi per andarsene militarmente da un Paese, da parte Usa sarebbe stato importante farlo in maniera responsabile». Mentre l’Onu registra oltre 270.000 famiglie sfollate negli ultimi mesi soprattutto al nord, notizie contrastanti giungono dalle aree appena passate sotto i taleban: «Non ci sono giornalisti, né cronache indipendenti, ma circola una voce: in alcune zone gli occupanti avrebbero chiesto a ciascuna famiglia una figlia da dare in sposa ai combattenti. Ci sono smentite, confusione e allarme».
Sui negoziati di pace ripartiti a Doha e di nuovo finiti in dichiarazioni vaghe, Freshta Karim ha un giudizio preciso: «Da semplice cittadina, mi pare che la violenza sia aumentata a tal punto che qualsiasi miglioramento appare minimo. Spero che si acceleri perché si deve credere nella pace, io personalmente ci credo».
Dopo l’ondata di partenze da Kabul a inizio anno, quando presi di mira erano attivisti e giornalisti, chiediamo se si assiste ora a una nuova stagione di fuga dalla capitale: «C’è chi cerca di ottenere un visto per l’estero, per farsi trovare pronto a scappare nel caso i taleban si avvicinino. Poi c’è chi, qualsiasi cosa accada, dice che non se ne andrà mai, anche perché si teme la durezza di essere rifugiato, umiliante per come sappiamo i profughi vengono trattati».
Se lei stessa resterà o partirà, ancora non sa dire. «È una delle decisioni più difficili, più atroci della mia vita. Qui ho costruito tutto, ho avviato la mia attività che va egregiamente. Ho la responsabilità di 32 persone dello staff, dei loro stipendi. Poi ci sono le centinaia di bambini con cui lavoriamo. La mia famiglia, i miei amici sono qui, ho un legame emotivo forte con Kabul, persino con le sue montagne e la natura. Credo che resisterò e resterò qui, almeno fino a quando potrò».