Odessa ostenta normalità - Ansa/Epa
È molto semplice dimenticare l’umana, troppo umana mondanità. Si dissolve improvvisa nel trauma, o si consuma lenta nel trascorrere dei giorni battuti dalla necessità, dall’incertezza, dal discorso pubblico diventato intimo limite del mondo. Devono vivere una sorta d’archeologica riscoperta dello stupore infantile i visitatori di Arcadia, il quartiere balneare di Odessa. Famiglie, coppie, vecchi e giovani solitari o in ciurme hanno tutti la stessa falcata ansiosa nel passare sui ciottoli innaffiati di fresco che inaugurano il lungo viale digradante al mare. Ogni turistico bene nell’elenco dei negozi, ogni culinaria suggestione nei menù dei ristoranti, i castelli malvagi e i giochi d’acqua per i bambini e la musica popolare francese o italiana a rammentare che la “perla del Mar Nero” è da sempre nobile e volgare fondaco, crocevia di genti e nostalgia d’Europa e di Mediterraneo.
Eppure tetra è stata la notte, risvegliata dal sistema di difesa nell’abbattimento dei missili da crociera sganciati da qualche nave russa nascosta dal Mare d’Azov. Cercavano il porto Chernomorsk, poco più a sud, dove si conserva il grano raccolto nelle vaste pianure. «Veniamo da Kharkiv, non lontano da Kupyansk, che si trova sotto attacco. Siamo studentesse. Abbiamo racimolato qualche soldo per due giorni di vacanza. Per dimenticare, vivere», spiega Helena in un segmento di spiaggia avanzato agli stabilimenti dalle fogge architettoniche ispirate dall’esotismo pacchiano: l’antica Gracia, Ibiza, un galeone, un’italica rotonda sul mare. Tutti sogni disertati, sorvolati da corvi e piccioni pasciuti. Svetta oltre la concrezione di bar, tendaggi e tavoli con vista il solenne hotel Gagarin, per il momento scampato alla ridefinizione nazionalistica.
A differenza del libero arenile popolare, l’acqua torbida e verde d’alghe dove s’immergono, nuotano e schiamazzano a centinaia è protetta da una rete davanti allo stabilimento. Rombi di nylon di quaranta centimetri per lato, da un molo scrostato al successivo. Roman è chino sul grande retino, estrae la mucillaggine per trovare sul fondo un bottino di piccoli gamberi trasparenti. Con un gesto sprezzante della mano ricusa la domanda sul pericolo delle mine. Andreij lancia indefesso la sua esca artificiale sulla superficie increspata, lancia e recupera finché un’aguglia non si torce scintillando al sole con il suo minuscolo rostro di pescespada. Anche lui viene da Kharkiv. È in visita alla famiglia, fuggita poco prima che le truppe di Mosca prendessero la città, per poi riperderla, quasi un anno fa. Vende abbigliamento femminile, o almeno ci prova in questi tempi d’economia affondata. Ha visitato Milano molte volte in passato. «Mine? Io non ne ho ancora viste», dice indicando pinne, maschera e boccaglio che ancora grondano accanto alla cassetta degli ami.
Appena due settimane fa Natalia Humeniuk, portavoce delle Forze di Difesa dell’Ucraina meridionale, ha ripetuto l’invito alla prudenza: il Mar Nero è stato pesantemente minato da aggressori e resistenti, le mareggiate possono disancorare gli ordigni destinati alle chiglie e portarli sul litorale. In un anno si sono registrate almeno dieci esplosioni non controllate, che hanno portato alla morte di almeno tre persone e a diversi feriti. Ma soprattutto, la distruzione in giugno della diga Nova Kakhova ha trascinato sul fiume Dniepr, e di conseguenza in mare, un numero presumibilmente alto di mine antiuomo, ben più piccole e facili da innescare.
«Riaprire le spiagge è stata una decisione populistica. In teoria dovrebbero essere sei le aree utilizzabili, tutte protette da reti. Ma per le persone è stato l’invito a invadere qualsiasi angolo della costa. Che reti, poi. Come se potessero davvero filtrare qualcosa», commenta sarcastico Peter Obukhoc, giovane consigliere comunale appartenente a una lista filo-europea e socio in una azienda che grazie a un’applicazione gestisce il traffico dei taxi. «Questo è il grafico che rappresenta il numero di viaggi negli ultimi tre anni. Il primo baratro è la pandemia. Il secondo l’invasione dei nostri amici russi. Mancano completamente i turisti a Odessa. Ma, osserva, pian piano ci stiamo riprendendo».
Proseguendo sulla cornice di Arcadia la musica viene sostituita da tonfi delle onde sul molo, dal posarsi degli sbuffi schiumosi. La corolla intorno è sempre costituita da monumentali palazzi che sui balconi svendono gli appartamenti o da scheletri di cemento incompiuto. È la periferia bagnante della vigile solitudine, appare qualche libro. Un disegno rappresenta sul muro un oceanico tubo d’onda. Riporta alla memoria i racconti di Oleh, barbiere del centro e surfista incallito: «Qualche mese fa è entrata una mareggiata magnifica, rara. Pareti di un metro e mezzo, lunghissime. Io e gli altri non abbiamo resistito. È anche per questo che resto a Odessa, che mando avanti il mio negozio nonostante la crisi spaventosa. Potevo andarmene, ma ho deciso di stare e resistere. Ma sarà lunga questa guerra, lunga».