I funerali di alcune delle vittime dell'aggiato nella Cattedrale di Abu Garnous a Minya (Ansa/Ap)
«Sono l’anello debole. Un bersaglio facile. Per questo, si accaniscono contro di loro». Secondo padre Giuseppe Scattolin, missionario comboniano ed esperto di mistica islamica, la guerra dei fondamentalisti ai copti, che ieri ha avuto un nuovo capitolo con il massacro di 35 pellegrini che si stavano recando al monastero di San Samuele a Minya, è parte di un conflitto più complesso. In gioco, per i radicali – in gran parte legati al Daesh – c’è la conquista del potere. «Per ottenerlo, però, devono prima destabilizzare il Paese. Per tale ragione, impiegano l’arma che sanno usare meglio: la violenza. Questa è rivolta contro l’intera società, musulmani inclusi. Gli attacchi a caserme, stazioni di polizia, funzionari pubblici sono quotidiani. I cristiani sono una categoria fragile. Colpirli è semplice e garantisce un buon ritorno mediatico. Per tale ragione, sono nel mirino», prosegue il sacerdote che ha vissuto al Cairo per oltre quarant’anni e a lungo ha insegnato nell’istituto Dar Comboni del Cairo.
In Egitto non vi è dunque un “conflitto religioso”?
No. C’è uno scontro interno al mondo islamico per la accreditarsi come unica guida nei confronti delle stesse altre componenti musulmane. Un conflitto storico, come dimostra la lacerazione tra sunniti e sciiti. Ora, però, l’emergere dei gruppi fondamentalisti lo ha acuito ulteriormente. Un fenomeno in atto in Egitto ormai da una quarantina d’anni, dopo il fallimento del nazionalismo arabo e dell’esperimento nasseriano. I fondamentalisti, per cui religione e politica sono intrecciati, vogliono presentarsi come i legittimi rappresentanti dell’islam. La supremazia religiosa, nella loro visione, deve tradursi in egemonia politica. Attenzione: tale conflitto travalica i confini egiziani per abbracciare l’intero Nordafrica e Medio Oriente.
insieme lanciato dalla moschea di al- Perché il Daesh ha intensificato le sue azioni proprio sull’Egitto negli ultimi mesi?
Perché, come più grande Paese a maggioranza islamica, ha un ruolo chiave nella regione. Oltretutto il suo essere ponte tra Africa e Europa lo rende strategico.
Che impatto ha avuto lo storico viaggio al Cairo di papa Francesco e il suo appello a camminare Azhar?
Il Papa e il grande imam di al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, con i loro discorsi, hanno demolito ogni tentativo di manipolare la religione per giustificare la violenza. Le parole, però, devono tradursi in un progetto capillare di riforma educativa. Il fondamentalismo si combatte sul fronte del pensiero. La repressione militare non è la soluzione. La comunità internazionale non sembra averlo ancora compreso.
Che cosa intende?
Sarebbe necessario, invece di continuare a vendere armi a pioggia, investire in un programma di cooperazione per sostenere un cambiamento nella formazione in modo da arginare la propaganda degli estremisti. Questi ultimi sono abilissimi nel farsi propaganda.
Su quali componenti della società egiziana fanno presa?
Non solo su quelle più povere e meno istruite. Negli ultimi attentati abbiamo visto il coinvolgimento di una sorta di classe media: giovani che hanno studiato discipline tecniche, senza una solida formazione umanistica, in cui molte scuole sono carenti. E qui si torna all’istruzione. In Egitto è necessaria una “rivoluzione culturale” per rafforzare quelle componenti islamiche – che ci sono già – aperte al dialogo e all’incontro con altre civiltà.