Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo (Ansa)
Pyongyang, Pechino, Seul, Tokyo. Nelle tappe del viaggio del capo della diplomazia americana Mike Pompeo è racchiusa tutta la portata (e le rogne) della missione asiatica che lo attende da domenica. Sul piatto non c’è solo la delicata partita sul nucleare nordcoreano, con il pendolo delle relazioni tra i due “innamorati” Donald Trump e Kim Jong-un sempre paurosamente instabile. Sullo sfondo c’è un altrettanto scottante dossier: quello cinese, che molti analisti ormai considerano la nuova guerra fredda. I due fronti sono intrecciati. E Pompeo sa benissimo che i due tavoli rispondono alle stesse regole. Il mandato con cui il segretario di Stato Usa approda a Pyongyang è quello di stringere i tempi. Trump vuole - dopo lo storico incontro con Kim del 12 giugno a Singapore – incassare finalmente qualcosa. A partire da un nuovo faccia a faccia con il leader nordcoreano, da spendere (anche) in sede elettorale. Pompeo, alla sua quarta visita in Corea del Nord, si è detto “ottimista”. Restano però le divergenze. E le minacce.
Il ministro degli Esteri nordcoreano Ri Yong Ho, dinanzi alla platea delle Nazioni Unite, ha lanciato strali contro le sanzioni americane che, a suo dire, aumenterebbero la sfiducia coreana nelle trattative con gli Stati Uniti. Altrettanto urticanti sono state le parole riferite alla stampa Usa da ambienti di Seul. La ricetta nordcoreana per rompere lo stallo? Washington dovrebbe “acconsentire” alla fine della guerra coreana in cambio dell'impegno del Nord di smantellare il sito nucleare di Yongbyon. Il regime, poi, vuole allentare il cappio delle sanzioni economiche. La risposta americana, ripetuta instancabilmente dallo stesso Pompeo, resta la stessa: le restrizioni non si toccano.
Dossier Cina. La missione di Pompeo a Pechino sembra una mission impossible: calmare le acque tra le due superpotenze, in un momento in cui l’escalation tra le due super potenze sembra ingovernabile. La guerra commerciale continua a combattersi senza esclusioni di colpi. Trump ha recentemente imposto tariffe su prodotti cinesi per 200 miliardi di dollari, che si aggiungono alle misure da 50 miliardi decise all'inizio di quest'anno. E, se non bastasse, ha minacciato di tirare fuori dal cassetto altri provvedimenti (roba da 267 miliardi di dollari). La Cina ha risposto imponendo dazi sui prodotti Usa per 60 miliardi di dollari. Non solo. Alla guerra commerciale se ne affianca (per fortuna, per ora solo virtualmente) un’altra, e ben più inquietante. Domenica scorsa una nave da guerra cinese si è avvicinata "pericolosamente" a un cacciatorpediniere statunitense nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale, costringendolo a cambiare la sua traiettoria. Durante una operazione della nave americana, l'USS Decatur, nelle Spratlys, tra il Vietnam e le Filippine, la nave cinese Luyang si è avvicinata a circa 40 metri alla prua del cacciatorpediniere americano e lo ha invitato "a lasciare la zona", ha riferito il comandante Nate Christensen, portavoce della flotta statunitense nel Pacifico. Il militare ha parlato di manovra "aggressiva", "pericolosa e poco professionale", aggiungendo che la Decatur è stata costretta a "una manovra per evitare una collisione"; e anzi - ha aggiunto Carl Schuster, un ex capitano della Us Navy - ha avuto "appena pochi secondi" per evitarla. Accuse prontamente respinte da Pechino.
Altrettanto “effervescente” è la guerra diplomatica. Il vicepresidente Usa Mike Pence ha accusato la Cina di cercare di indebolire Trump. “La Cina vuole un presidente americano diverso", ha detto facendo eco alle parole del presidente che ha addebitato a Pechino l'intenzione di “volersi intromettere nelle elezioni Usa”. Ora spetta a Pompeo tentare l’impossibile. Spegnere almeno qualche incendio.