La fame «raddoppia» la quota di persone che lasciano il proprio Paese. Ma rispetto ai flussi globali non bisogna dimenticare che nell’Europa e nel mondo ricco arriva solo una quota esigua di migranti: in nove casi su dieci i migranti africani restano in Africa e la stessa relazione riguarda le comunità asiatiche. È questo uno degli aspetti sottolineati ieri dagli esperti del Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu nel corso della presentazione del rapporto At the Root of Exodus: food security, conflict and international migration alla Farnesina. Nello studio si evidenzia con chiarezza che sicurezza alimentare e migrazioni sono questioni interconnesse, rispetto alle quali servono interventi coordinati anche a beneficio delle comunità ospitanti del Medio Oriente e dell’Africa dove si sono trasferiti centinaia di migliaia di profughi.
L’appello a un impegno condiviso è al centro delle raccomandazioni contenute nel rapporto: «Molte comunità dei Paesi a basso e medio reddito hanno accolto per lunghi periodi un numero molto alto di rifugiati in proporzione alla popolazione residente, con un aggravio pesante per le infrastrutture pubbliche e i servizi. In queste circostanze la mancanza di assistenza alle comunità ospitanti ali- menta ostilità e conflitti con le comunità di rifugiati».
Nello studio del Pam è preso in considerazione un arco di tempo che va dal 1990 al 2015. Due anni fa i migranti internazionali sarebbero stati 244 milioni. Oltre 65 milioni invece i profughi costretti dai conflitti a lasciare le proprie case: nel 55 per cento dei casi erano di nazionalità afghana, siriana o sud-sudanese. «Per ogni punto percentuale in più di incidenza della malnutrizione, tra il 1990 e il 2015 il tasso di emigrazione è cresciuto del due per cento», ha sottolineato Arif Husain, capo economista del Pam e autore del rapporto.
Occorre «dare un segnale di sveglia al mondo intero» e «lavorare sulle cause» delle migrazioni «per dare una risposta all’emergenza in atto: la situazione è molto seria e può andare solo a peggiorare» perché «nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9 miliardi e sarà impossibile raggiungere l’obiettivo di eliminare la fame nel mondo entro il 2030», ha spiegato da parte sua il direttore esecutivo del Pam, David Beasley, secondo il quale «collaborando possiamo sperare di raggiungere l’obiettivo, ma se non affrontiamo le cause non riusciremo mai a dare una risposta all’emergenza in atto».
Il messaggio principale che il rapporto cerca di trasmettere è che è molto più facile e conveniente risolvere il problema dell’alimentazione alla radice. Beasley lo spiega proponendo un paio di esempi: «Fornire un pasto in Siria ci costa cinquanta- sessanta centesimi, e se non ci fosse la guerra ci costerebbe anche meno. Fornire un pasto a un profugo siriano in Europa ci costa cinquanta euro. Un pasto minimo a New York costa un dollaro e venti: andate in Sudan a vedere quanto si possa offrire con un dollaro e venti». Si tratta quindi di creare sistemi per l’irrigazione, la coltivazione. Di investire nei pozzi per l’acqua. Di creare in sostanza lavoro e reddito.
Questo risolverebbe tanti problemi, anche all’Europa, perché «la fame crea instabilità, violenza, dà possibilità ai gruppi terroristici di inserirsi». L’obiettivo, ambizioso, è non avere più fame nel mondo entro il 2030. Ma è fattibile solo se cambia la politica globale.