giovedì 8 agosto 2024
Mentre da Teheran fanno sapere che a colpire Israele sarà uno degli "alleati" dell'Iran, Yahya Sinwar si dice favorevole a una tregua
Il fumo delle esplosioni si leva da Kfar Kila, oltre il confine libanese nel nord i Israele, dove continuano i tiri di artiglieria

Il fumo delle esplosioni si leva da Kfar Kila, oltre il confine libanese nel nord i Israele, dove continuano i tiri di artiglieria - Ansa

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La gara a chi colpirà Israele vede gli Houthi yemeniti e gli Hezbollah libanesi contendersi la candidatura per il primo colpo. Anche ieri una giornata di giochi di parole, prima dei giochi di guerra. Come quelle arrivate a sorpresa da Yahya Sinwar, il nuovo capo di Hamas, favorevole a un cessate il fuoco. Da Teheran avevano appena fatto sapere di avere “delegato” gli alleati a cominciare le operazioni. Con Israele sempre più tentato di spezzare l’assedio fatto di minacce e di una snervante attesa, colpendo per primo e più duro.

Più che i timori per un’imminente ritorsione iraniana, ieri i media del Paese per tutto il giorno hanno rilanciato il primo timido “mea culpa” di Netanyahu. Con una precisa scelta dei tempi, nella settimana della minaccia più allarmante, il capo del governo ha rilasciato un’intervista al settimanale Time nella quale per la prima volta si è detto «profondamente dispiaciuto» per quanto avvenuto il 7 ottobre, riferendosi a ciò che non ha funzionato nella prevenzione dell’attacco di Hamas. «Mi dispiace profondamente che sia accaduta una cosa del genere. Ti guardi indietro e ti ripeti: avremmo potuto fare qualcosa per evitarlo?», ha risposto Netanyahu assumendosi la responsabilità per le falle nella sicurezza.

Non meno astuta la mossa mediatica di Sinwar, neo capo politico e militare di Hamas, che secondo fonti israeliane di Channel 12 avrebbe trasmesso il suo primo messaggio da leader alle fazioni fuori Gaza. Sinwar avrebbe chiesto di perseguire il cessate il fuoco con Israele e non attendere l’eventuale reazione armata coordinata dall’Iran. Un messaggio la cui autenticità non è stato possibile verificare, ma che ancora una volta getta scompiglio nella partita per il Medio Oriente. Parole arrivate poco dopo l’intervista a Netanyahu in cui il premier ha ribadito che non intende lasciare l’incarico fino a quando non saranno chiusi i conti con Hamas e che un’inchiesta indipendente sulle omissioni di Stato non potrà esserci prima della fine della guerra. Nell’elenco dei nemici, però, il premier ha inserito anche l’opposizione e le migliaia di manifestanti che hanno contestato la riforma giudiziaria poiché, a suo dire, le proteste dell’estate e dell’autunno 2023, hanno indebolito Israele agli occhi dei suoi nemici di sempre. «Siamo nel mezzo di una guerra, una guerra su sette fronti. Penso che dobbiamo concentrarci su una cosa: vincere», ha ribadito il capo del governo.

Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, l’ultranazionalista Itamar Ben Gvir, gli ha rivolto un appello, ricordando che Levi Eskhol, il capo del governo all’epoca della Guerra dei Sei Giorni nel ‘67, «non ha aspettato». Israele, dunque, dovrebbe colpire per primo e senza esitazioni. Gli Usa, al contrario, invitano a tenere i nervi saldi. La diplomazia potrebbe salvare il salvabile, ridurre le proporzioni della «vendetta» di Teheran facendo guadagnare tempo a Israele che anzi sta intensificando i raid e le retate in Cisgiordania e i bombardamenti su Gaza, dove ieri sono state bersagliate le aree a ridosso di due scuole dove secondo la Protezione civile della Striscia sono morte più di 40 in maggioranza disarmate ed estranee alla militanza armata. A Tel Aviv le fonti militari più loquaci con i giornalisti ripetono di essere sempre più convinti che il primo colpo sarà sferrato dagli Hezbollah che secondo l’intelligence israeliana Hezbollah deve vendicare l’uccisione a Beirut, il giorno prima dell’assasinio a Teheran del capo di Hamas Haniyeh, del proprio comandante militare Foaud Shukr.

Abdul Malik al-Huthi, leader degli Houthi nello Yemen, in un discorso televisivo ha spiegato perché la milizia intende intensificare le operazioni: vendicare il raid israeliano del 20 luglio contro i serbatoi di stoccaggio del carburante nel porto di Hodeida.

Tutti parlano di vendetta, mentre la politica tenta disperatamente di far valere un peso che nel tempo è andato perduto. Giorgia Meloni ha avuto un colloquio telefonico con il neopresidente iraniano Masud Pezeshkian a cui «ha sottolineato la necessità di scongiurare un allargamento del conflitto in corso a Gaza, anche con riferimento al Libano – riferisce una nota di Palazzo Chigi –, invitando l’interlocutore a evitare un’ulteriore escalation e a riaprire la via del dialogo».

L’unico effetto della pressione diplomatica, al momento sembra quello di prolungare il conto alla rovescia. Il ministro degli Esteri iraniano Ali Bagheri, che mercoledì aveva partecipato a un vertice interregionale in Arabia Saudita, ieri ha lanciato un nuovo appello ai Paesi islamici affinché siano uniti e si coordinino «negli sforzi per porre fine ai crimini di Israele e per impedire che il regime metta in pericolo la sicurezza della regione». Aggiungendo poi una condizione che lascia aperte le porte a una reazione armata poco più che simbolica, in cambio di garanzie. «La fine della guerra a Gaza - ha affermato Bagheri - sarà la chiave per la pace e la stabilità nella regione».

Proprio mentre l’esercito israeliano, appena dopo l’assegnazione al super ricercato Yahya Sinwar della leadership politico-militare di Hamas, ha avviato nuove operazioni di terra nell’area di Khan Younis, nel sud della Striscia, si moltiplicano le voci per un possibile accordo. Secondo quanto riporta Al-Araby Al-Jadeed, quotidiano ritenuto vicino alle autorità del Qatar (che ospitava il leader di Hamas Haniyeh ed è stato impegnato nella mediazione con Israele insieme all’Egitto) i mediatori occidentali starebbero cercando di «convincere le parti interessate nella regione» ad accettare «una nuova proposta per raggiungere la cosiddetta calma sostenibile». Sul tavolo ci sono «la fine della guerra a Gaza e la conclusione di un accordo di scambio di prigionieri», a condizione che «l’Iran e gli Hezbollah rinuncino ad attaccare Israele».

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