Ancora sotto choc e con il timore di nuove azioni terroristiche a distanza di quattro giorni dalla sua Pasqua di sangue, lo Sri Lanka piange i suoi morti, di cui sono in corso i funerali di massa, e vede crescere ancora il numero delle vittime: 359 di cui 38 stranieri. Negli ospedali restano 400 feriti, alcuni molto gravi. Gli arresti si intensificano: 60 quelli confermati dalla polizia. Ogni segnalazione viene verificata, mentre la vita della capitale e delle altre città colpite, Negombo e Batticaloa, è filtrata da un fitta rete di posti di blocco.
Se stenta a ritrovare una normalità, il Paese si interroga anche sulla propria fragilità a dieci anni dalla fine della guerra civile. Il presidente Maithripala Sirisena ha annunciato le dimissioni del ministro della Difesa e del capo della polizia, ma potrebbero presto cadere altre teste, mentre un acceso dibattito-fiume è in corso in Parlamento sulla vicenda. E sulle responsabilità del Daesh, che martedì ha rivendicato le stragi senza aggiungere a sostegno altro che monologhi di propaganda e immagini di presunti militanti srilankesi in addestramento diffusi sul suo sito Aamaq.
Immagini tra cui emerge quella di un individuo a volto scoperto circondato da altri sei uomini mascherati. Si tratterebbe di Zahran Hashim, un quarantenne srilankese noto per le sue idee estremiste ma finora mai sospettato di intenti terroristici. Potrebbe essere lui – di famiglia benestante originario di una delle enclave musulmane delle regioni orientali dell’isola, considerato un solitario e un piantagrane dagli stessi leader islamici e che da tempo millantava contatti all’estero – l’elemento di raccordo, certamente non l’unico, tra la militanza locale e gruppi stranieri.
Era stato lo stesso vice-ministro della Difesa, Ruwan Wijewardene, a confermare in Parlamento che principali sospettati per le stragi sarebbero due gruppi militanti locali: il National Thawheed Jama’ut, di cui è a capo proprio Hashim, e lo Jammiyathul Millathu Ibrahim, quasi sconosciuto. In sé una sorpresa, dato che la capacità di questi gruppi di organizzare altro che manifestazioni presso le moschee era stata finora praticamente nulla. Ancora più scioccante, però, è arrivata ieri la conferma che diversi dei sette suicidi e dei nove terroristi individuati e ricercati proverrebbero da famiglie note e molto facoltose.
«Crediamo che uno degli attentatori suicidi abbia studiato nel Regno Unito e abbia perfezionato gli studi in Australia prima di tornare a vivere in Sri Lanka», ha confermato sempre il ministro della Difesa. «Riteniamo che il gruppo di attentatori suicidi sia formato in maggioranza di individui istruiti, nati in famiglie di classe media e medio-alta. Di conseguenza con una stabilità finanziaria e un’ampia indipendenza». In alcuni casi, ha aggiunto il ministro, «hanno studiato in diversi Paesi, arrivando a conseguire master in Legge». Giovani istruiti, quindi. E ricchi. Se non ricchissimi. Come due dei suicidi di domenica, figli del miliardario Mohamed Yusuf Ibrahim a capo di un impero delle spezie.
Una narrativa molto distante dall’immagine di individui di basso ceto facilmente indottrinabili da imam impegnati a reclutare giovani da avviare al jihad. Una condizione che richiama alla mente i responsabili del massacro del ristorante Holy Artisan Bakery della capitale bengalese Dacca, il 1° luglio 2016. Un commando formato da giovani di famiglie altolocate, insospettabili per età, tenore di vita e istruzione, che in una notte da incubo massacrarono senza pietà 24 persone, in maggioranza stranieri e tra essi sette cittadini italiani.