Il politologo Thierry Vircoulon
«Apartire dal 2015, nella Repubblica Democratica del Congo, sono state tentate varie mediazioni, fino a quella recente della Chiesa, ma per il momento mancano segnali stabili che possano suscitare ottimismo». A sostenerlo è il politologo Thierry Vircoulon, ricercatore presso l’Ifri (Istituto francese di relazioni internazionali), specialista della regione dei Grandi laghi ed esperto già associato ai programmi africani di diverse Ong e organizzazioni internazionali.
Come interpreta le mosse del presidente Joseph Kabila?
Sta giocando con il fuoco. Ha deciso di restare al potere e vuole sfruttare il fattore tempo, approfittando anche della morte del leader dell’opposizione Etienne Tshisekedi. Ci sono poche chance ormai che le elezioni abbiano luogo quest’anno e ciò consentirà alla presidenza un nuovo slittamento.
Dopo l’uccisione di due esperti dell’Onu, il lavoro degli operatori internazionali sembra complicarsi…
L’Onu è purtroppo gravemente screditata presso la popolazione, che la percepisce come un alleato di Kabila. La Missione Onu e il regime vengono spesso messi sullo stesso piano.
A livello locale, anche la Chiesa è presa di mira. Come interpreta questi attacchi?
In certi casi, si può pensare che si tratti di forze che operano a favore del governo, perché l’opposizione non ha davvero ragioni di sferrare simili attacchi.
Il dialogo politico può ripartire?
Nel quadro della sua strategia, il presidente Kabila deciderà probabilmente prima o poi di riprendere il dia- logo. È sempre possibile che nomini un premier proveniente dall’opposizione, ma scegliendo un nome capace di dividerla, più che di compattarla. L’opposizione è sempre più frammentata e Kabila potrebbe cooptare qualcuno che non è proposto dall’insieme dell’opposizione.
Quali sono i fattori chiave per le speranze di un allentamento della tensione?
L’accordo del 31 dicembre dovrebbe essere applicato secondo i termini negoziati. Ma oggi appare difficile. Ci sono poche chance che l’opposizione riesca a compattarsi e che il presidente Kabila accetti i termini fissati.
Dallo scorso autunno, le violenze hanno provocato almeno 400 morti. Teme il ritorno di scontri su vasta scala?
La rivolta rurale in corso nel Kasai non sarà facilmente repressa. Il potere centrale potrebbe impiegare ingenti mezzi militari e una crescente brutalità. C’è il rischio che altre regioni si ribellino. La Chiesa cattolica ha cercato di evitare il peggio, ma non si può escludere un nuovo ciclo di violenze come all’epoca della fine del maresciallo Mobutu.
Che ruolo può svolgere la comunità internazionale?
In questa fase, nessun ruolo decisivo, temo. La Chiesa è intervenuta proprio perché l’anno scorso vi era stato il fallimento dell’Onu e dell’Unione africana nei tentativi di giungere a un accordo inclusivo. La Chiesa potrebbe essere rimasta la mediatrice di ultima istanza. È difficile immaginare altre mediazioni possibili.
La Corte penale internazionale conduce esami preliminari sugli eccidi recenti. Un simile lavoro può influire sulle parti in conflitto?
La Cpi non ha finora dimostrato di poter influire in simili crisi. I tempi della giustizia internazionale sono lunghi ed il suo lavoro non si è dimostrato sempre di grande utilità.
Il Congo rischia di subire le contaminazioni fra diversi focolai locali?
I focolai di violenza non formano ancora una vera costellazione. Ma accanto alla situazione nel Kasai, che rappresenta una tragica novità, occorre segnalare il conflitto piuttosto virulento che oppone i pigmei e i bantù di etnia luba nell’Alto Lomami, nel Sud-est. Permane inoltre la situazione di conflitto nel territorio di Beni, nel Nord-Kivu. C’è poi un dato di fondo: il Paese non ha mai conosciuto un’alternanza politica senza violenze, ad eccezione del 2006. L’attuale crisi è legata al nodo elettorale, ma risente pure di una storia nazionale priva di una tradizione democratica.