«Per anni abbiamo detestato la dittatura di Saddam. Abbiamo sperato che venisse rimosso... Non abbiamo pianto quando è stato giustiziato; no, nemmeno una lacrima. Ora però la "Città caserma" è diventato una città fantasma, ora il Daesh ha tolto tutto alla mia Mosul: i colori, i rumori, le risate, i sogni». Sandy Hikmat Hana ha 36 anni. È scappato dalla città irachena quel terribile 6 agosto 2014. Ha pensato subito alla Giordania. Ha creduto subito in un’altra vita. E ha trovato un Paese capace di coniugare parole come accoglienza e integrazione. E una chiesa cattolica tenace e generosa. «Oggi ho un lavoro, una dignità. È un miracolo», ripete a voce bassa. Siamo alla periferia di Amman. Un grosso edificio in cortina nato anche grazie agli sforzi economici della Conferenza episcopale italiana è diventato una cittadella della solidarietà. Qui rifugiati iracheni e siriani possono lavorare. Qui cristiani e musulmani vengono curati senza fare domande. Con lo stesso amore. Qui l’incubo Daesh riprende forma solo nelle telefonate via viber e via whatsapp dei rifugiati a chi è rimasto laggiù. «A Mosul nulla è più come era. Le donne non scendono più in strada e quando lo fanno sono completamente coperte. Gli uomini si sono fatti crescere la barba...». Sfidiamo Sandy con una domanda dura, netta, diretta: riuscirai mai a perdonare? Lui ci guarda silenzioso per qualche istante. Sembra non capire. Ripete quella parola: «Perdonare? No, non c’è perdono. Mosul per noi è morta: è stato un incubo, non torneremo mai più».
La vecchia vita e la nuova vita. Nassam Rafuga è giovane come Sandy. Come Sandy viene da Mosul. «Il mio futuro? Sogno di vedere crescere i miei figli in Europa, magari in Australia. Ma forse è solo un sogno. C’è tanto egoismo, tanta indifferenza. Qui ci siamo tutti registrati al centro rifugiati e tutte le nostre domande sono state puntualmente respinte. Le porte dell’Europa sono chiuse». Il parallelo tra Europa e Giordania è impietoso per la nostra Unione. Qui non ci sono pagine buie come Calais e Gorino. E poi c’è una chiesa cattolica che è un punto di riferimento per tutti i rifugiati. «La Caritas ci ha trovato un lavoro, una casa, paga le scuole per i nostri figli. Per i nostri figli musulmani. La carezza della Chiesa è stata inattesa e bellissima. Papa Francesco e prima di lui Benedetto e Giovanni Paolo hanno capito la nostra sofferenza più dei nostri presidenti arabi».
Nella cittadella della solidarietà arrivano in tanti. Uomini che hanno bisogno di una protesi, donne che hanno bisogno di assistenza psicologica, ragazzi che cercano un lavoro. Padre Imad, direttore del centro prima di spostarsi al patriarcato di Gerusalemme, spiega il miracolo con parole semplici: «È la vita a guidare i nostri gesti, le nostre scelte. Qui parliamo di rifugiati, non di religioni. Cattolici e islamici. Senza distinzioni. Qui i musulmani vedono che quello che è scritto nella Bibbia è vita». Per qualche istante Imad resta in silenzio. «Questo centro ha più forza di mille conferenze. Questa è conferenza viva, è vita vera. Qui curiamo tutti senza chiedere nulla. Ecco il dialogo. Ecco la risposta a chi non crede che cattolici e musulmani possono camminare insieme». Qualche metro più in là una suora piccola dal sorriso sereno ascolta in silenzio. Si chiama Merdiana. È nata in Siria. Ha scelto la famiglia dei salesiani e ha lavorato per tredici anni all’ospedale italiano di Damasco. «Ho curato gente che soffriva senza colpa e ho pensato subito a Gesù. Ma ho incontrato anche gli uomini del Daesh. Arrivavano da Raqqa, la cittadina al nord della Siria, roccaforte dello Stato islamico. Erano feriti e rabbiosi, non ci guardavano nemmeno in faccia. Poi è iniziata la terapia. Non parlo delle cure mediche, parlo della cura dell’amore. Funziona sempre. Io pensavo "che cosa avrei fatto se fossi cresciuta in un contesto come il loro, se avessi fatto le loro esperienze, se avessi incontrato le persone che hanno incontrato loro...».
Merdiana parla guardandoci negli occhi. A tratti ci sorride. «Ho il dovere di mostrare anche a loro il volto di Gesù. Sì, ho curato anche gente cattiva, anche uomini che hanno fatto del male, e l’ho fatto con lo stesso amore con cui curo un fratello cristiano. Anzi forse con più amore. Perché per rialzarsi devono provare la grandezza della misericordia. Devono provare la forza dell’amore». Questa piccola suora siriana racconta la sua vita. Il contatto con la guerra. Con la sofferenza. Con la violenza. Con le ingiustizie del mondo. E dice: «Tutto questo è un motivo per pregare di più».
La preghiera e il dialogo sono due strade per "regalare" a quest’area del mondo una speranza. Ci spostiamo dalla cittadella della solidarietà all’università cattolica voluta da monsignor Twal. Attraversiamo Amman. Guardiamo i suoi grattacieli. Nel campus studiano cattolici e musulmani. Il Rettore spiega che aprire una fase nuova è possibile è che la cultura può giocare un ruolo importante. «La bandiera che sventola qui è quella della pace, della convivenza, della cultura. Un Paese dove c’è cultura ha più capacità di far convivere le diversità, anzi di crescere grazie a loro. E ha più anticorpi per resistere alla spinta del terrorismo, dell’odio». Omar Gammoh insegna qui dopo aver passato tre anni in Italia. Era a Pavia. A specializzarsi in farmacologia. Ora è tornato per fare la sua parte. «C’è un mondo arabo che vuole esempi, che va preso per mano. E la Giordania ci sta provando. Qui i rifugiati non vengono lasciati soli. Qui hanno cibo, assistenza, una casa. Facciamo quasi da soli il lavoro di tutto il mondo, ma il mondo non può più voltarsi dall’altra parte».