Una foto del 17 agosto 2023 mostra il ministro all'Educazione francese Gabriel Attal in una scuola superiore nell'isola francese de La Reunion - ANSA
«L’abaya non ha posto nelle nostre scuole». Con queste parole il ministro all’Istruzione francese, Gabriel Attal, ha annunciato la messa al bando del tradizionale abito islamico, in genere indossato dalle donne insieme all’hijab come copricapo, dagli istituti scolastici pubblici che riapriranno i battenti che il 4 settembre. «Quando si entra in una classe – ha sottolineato – non si deve poter identificare la religione degli alunni guardandoli». È la laïcité. Il secolarismo alla francese.
La stretta non è un fulmine a ciel sereno. È da quasi un anno che i dirigenti scolastici chiedevano al governo «istruzioni chiare» su come disciplinare l’abbigliamento in aula degli studenti musulmani. Lo aveva chiesto anche il Consiglio francese per la laicità e i valori della Repubblica per non lasciare i presidi in balia di scelte estemporanee. La decisione definitiva è stata tuttavia a lungo rimandata. Ostaggio di un dilemma: l’abaya, il lungo vestito portato sopra ad altri indumenti, manifesta o no una dichiarata affiliazione religiosa? La questione non riguarda dettagli di stile ma l’applicazione della legge del 2004 che vieta i simboli religiosi nelle scuole statali. Compresi il velo islamico, la kippa ebraica, i turbanti sikh e le croci cristiane. In merito si è pure espresso il Consiglio francese della fede musulmana secondo cui nessun capo di abbigliamento della tradizione islamica è un simbolo religioso. Tantomeno l’abaya. Non è questo, evidentemente, l’orientamento adottato dall’esecutivo di Élisabeth Borne. Il ministro Attal, giovedì, aveva anticipato la stretta contro l’abaya in una riunione con i provveditori regionali chiamati a «restare uniti, qualunque sia la prova a cui la Repubblica verrà messa».
Ieri, nella conferenza stampa tenuta di consueto all’inizio del nuovo anno scolastico, è arrivata la conferma. «Laicità significa libertà di emanciparsi attraverso la scuola», ha spiegato. L’abaya, ha continuato, è «un gesto religioso» che mina il «santuario secolare che la scuola deve essere». Attal non ha fornito dettagli sull’operatività del divieto ma ha annunciato che intende rafforzare entro il 2025 la formazione sui temi legati alla laicità a cominciare, già entro la fine dell’anno, dai dirigenti scolastici. Perché, ci si chiede, la Francia è tornata a smuovere le ceneri calde del dibattito sulla laicità nella scuola a quasi vent’anni da una legge controversa come quella contro l’«ostentazione» dell’appartenenza religiosa?
Il Paese, va ricordato, è risolutamente laico ma con una delle più numerose comunità islamiche d’Europa. Secondo le stime, almeno sei milioni. Il portavoce del Governo, Olivier Veran, ha chiarito che l’abaya è un «abito chiaramente religioso» che Parigi ha finora tollerato. Tuttavia, ha tagliato corto, «non si va a scuola per fare proselitismo religioso ma per imparare». Dichiarazioni che secondo il leader della sinistra francese, Jean-Luc Me’lenchon servono solo a «polarizzare ulteriormente lo scontro politico e a dare il via a un’assurda guerra di religione». I politici di destra già pensano ad estendere la messa al bando alle università e persino alle mamme che accompagnano i bambini nelle gite scolastiche.
Intanto, sul ministro Attal, vicino al presidente Emmanuel Macron, e sul governo tornano a piovere accuse di islamofobia da alcune frange della sinistra e del mondo accademico. Diversi sono gli esperti secondo cui l’abaya, molto diffusa nel Maghreb e nei Paesi del Golfo, non è un indumento direttamente legato al culto musulmano, ma «a una cultura». Il dibattito insomma è, ancora una volta, solo all’inizio.