Salah Nuh Ismail era meglio conosciuto con il nome di Salah Badbado. Alle 9 della mattina, il 26 luglio, era al volante di un’autobomba diretta a tutta velocità contro l’entrata del “campo Halane”, la base militare usata dai soldati della Missione di pace in Somalia (Amisom). Sarebbe stato l’ennesimo attacco dei jihadisti di al-Shabaab nella capitale, Mogadiscio. Questa volta, però, c’era una particolarità: Badbado fu per anni un parlamentare dei vari governi di transizione somali. Nel 2010, invece, cambiò missione e sposò il jihad. «Salah Badbado aveva rilasciato un’intervista di un’ora alla radio jihadista
al-Andalus annunciando il suo atto terroristico – aveva scritto la stampa locale –. Le sue parole erano dirette alla popolazione somala, ai mujaheddin e all’esercito invasore». Almeno 13 persone morirono in uno dei più spettacolari attentati causati dagli shabaab nell’ultimo anno. Mentre gli occhi del mondo sono rivolti verso il Daesh – che sta perdendo colpi in Siria, Iraq e Libia – il jihad in Somalia sta acquistando sempre più terreno. Alberghi, ristoranti, aerei, uffici dell’Onu, basi militari e stazioni di polizia: tutto è sotto il tiro dell’islam radicale. Ieri, i militanti hanno persino colpito un ospedale nella città di Baidoa. Al-Shabaab sta di fatto attaccando le fondamenta dell’intera società somala. E il fragile governo federale del presidente Hassan Sheikh Mohamud – riconosciuto nel 2012 dalla Comunità internazionale dopo anni di transizione – fatica a prendere il controllo della situazione. Dal 2009 l’Amministrazione del presidente americano Barack Obama ha lanciato una campagna militare contro il movimento utilizzando bombardamenti aerei e droni. Nonostante alcuni importanti leader jihadisti siano stati uccisi (insieme a non si sa quante persone innocenti), tale strategia non sembra funzionare. «La buona notizia è che il Pentagono sta eliminando gli insorti sul terreno – spiega Ty McCormick, della rivista americana
Foreign Policy –. La brutta notizia è che al-Shabaab diventa comunque sempre più forte». L’Uganda, che attraverso i suoi soldati costituisce la maggioranza dei 22mila militari Amisom pagati dall’Unione Europea, ha recentemente dichiarato che «entro dicembre 2017» lascerà la missione. «Le relazioni con le controparti militari somale, statunitensi, turche e inglesi sono ormai troppo frustranti», ha precisato lo scorso mese il generale ugandese Katumba Wamala. Un’atmosfera molto simile regna anche a livello politico. Le elezioni per eleggere il nono presidente somalo dovevano avvenire questo mese. Nonostante le autorità abbiano deciso ieri per il 7 novembre, pochi credono che tale data sarà veramente rispettata. «La Somalia sta mutando pelle con la scomparsa del tradizionale sufismo a-politico – spiega un diplomatico occidentale dalla capitale kenyana, Nairobi –. Infatti si sta radicando sempre di più il salafismo tra i giovani facilmente influenzabili da al-Shabaab e dal resto degli islamici radicali presenti anche nelle istituzioni». Oltre alla sicurezza, un altro dei fattori principali di instabilità è legato alla distribuzione delle risorse naturali somale, petrolio in primis. Le amministrazioni locali rivali hanno dato a molte società diritti di esplorazione che si sovrappongono, creando solo confusione. A livello internazionale, invece, la disputa tra Kenya e Somalia riguardo ai blocchi di greggio e gas presenti nelle acque dell’Oceano indiano è sotto processo alla Corte internazionale di giustizia di base all’Aja, dove durante i prossimi anni si discuterà per definire l’esatto confine marittimo tra i due Paesi. Tra summit politici, aiuti umanitari, e investimenti privati, la comunità internazionale ha speso miliardi in Somalia da quando l’esercito etiope invase il Paese con il supporto degli Stati Uniti nel 2006. Anche la diaspora somala si è impegnata a tornare, sebbene molti siano stati uccisi e altri si stiano organizzando per partire nuovamente. I rischi sono troppo alti. «Sono convinto che la crisi somala sia manovrata perché lo status quo giova a molta gente – racconta ad
Avvenire un uomo d’affari somalo della diaspora residente a Mogadiscio da un anno –. Io vado avanti con i miei progetti. Ma non so per quanto ancora».