Asia Bibi, la madre pachistana in carcere da 2.745 giorni perché cristiana
Non succedeva da un decennio. Domenica 18 dicembre migliaia di cristiani hanno partecipato alla marcia natalizia organizzata nel centro di Lahore in Pakistan, capoluogo di una provincia, quella del Punjab, marchiata da gravi episodi di persecuzione verso la minoranza cristiana. Non senza timori, come ha sottolineato il vescovo anglicano Samuel Azariah. «Abbiamo avuto solo garanzie riguardo la sicurezza. Appena tre vigili ci hanno aiutato, ma ringraziamo le autorità per avere contribuito alla ripresa di una tradizione che era stata sospesa per la minaccia terroristica ». «La marcia – ha sottolineato il vescovo – è stata un messaggio a tutta la nazione che i cristiani esistono e che hanno diritto alla libertà di religione».
Piccoli segnali di reazione alla furia dei radicali. Anche il governo pachistano, da parte sua, sta cercando di contenere la deriva fondamentalista. In questa linea va la decisione di affidare ai tribunali militari anche il giudizio di casi particolarmente efferati ma non connessi con atti di terrorismo. Da qui la condanna a morte, il 23 novembre, di cinque individui colpevoli di avere ucciso in modo atroce la coppia cristiana Shahzad e Shama due anni prima perché accusata di avere bruciato pagine del Corano. Pur esprimendo la forte contraria alla pena capitale, il domenicano padre James Channan, direttore del Centro per la Pace nella città di Lahore e fautore del dialogo interreligioso ha sottolineato: «La gente ha espresso soddisfazione e grande sollievo per una sentenza che è un forte avvertimento per chi prende nelle proprie mani una legge controversa e accusa in modo ingannevole, soprattutto i cristiani».
Resta aperto il doloroso caso della cattolica Asia Bibi, che ha passato in carcere l’ottavo Natale dall’inizio del suo incubo. Dopo la sospensione della pena capitale il 22 luglio 2015, la madre di cinque figli, in carcere da 2.745 giorni, è in attesa che la Corte suprema decida quale sarà la sua sorte. La sua sarebbe la prima esecuzione in Pakistan di un cristiano accusato di blasfemia. È forte, però, la speranza che la donna veda la fine di una vicenda unica per durata e complessità, nonostante i rinvii dell’udienza definitiva (ultimo quello del 13 ottobre) con motivazioni che rendono chiaro il disagio dei giudici e i limiti della legge. Mai come nel 2016, inoltre, il caso di Asia ha evidenziato i rischi per attivisti e legali coinvolti in questo caso e in altri.
Oltre alla donna, sono 17 i condannati per blasfemia rinchiusi nei bracci della morte. Decine di altri sono sotto processo. Tra questi il 16enne Nabeel Masih, denunciato da coetanei musulmani per avere condiviso su Facebook una foto considerata offensiva. Sottoposti a un procedimento affidato a giudici militari sono pure Anjam e Javed Naz, indagati inizialmente in un caso di truffa e finiti sotto l’accusa infamante di offesa alla fede islamica. «Occorre fermare chi alimenta l’odio contro i non-musulmani e portarlo davanti alla giustizia», dice Anjum James, leader dell’Associazione degli insegnanti delle minoranze del Pakistan. «Non è più possibile che venga accettata l’evidente svilimento dei diritti delle minoranze religiose in Pakistan », ricorda James, che nelle scorse settimane ha inviato una lettera alla Corte suprema in cui chiede di intervenire con passi concreti per fermare l’indottrinamento degli studenti all’odio religioso.
Il Pakistan al bivio, per molti fucina di terroristi e fanatici religiosi, si interroga. A maggior ragione in un tempo che apre i 70 anni dell’indipendenza e che richiama agli ideali del “padre della patria” Muhammad Ali Jinnah. «Abbiamo davanti giorni in cui non ci sarà distinzione tra una comunità e l’altra, nessuna discriminazione tra una casta o fede e le altre – declamava Jinnah davanti all’Assemblea costituente l’11 agosto 1947 –. Nasciamo indirizzati dal principio fondamentale che siamo tutti cittadini e cittadini di pari diritto in un solo Stato».